Le Antologie Poetiche Virtuali sono curate da Giuseppe Vetromile. Ogni Volume comprende 10 Autori, liberamente selezionati ed invitati dal curatore. Sono previsti volumi dedicati a particolari ambiti poetici (poesia emergente, poesia dialettale, ecc.). Le copertine sono elaborate e realizzate da Ksenja Laginja.

mercoledì 4 maggio 2022

VOLUME XXXIV

 

Introduzione

Esiste ancora un posto dove gente indisciplinata ed egoista versa, anzi sparpaglia, la spazzatura ad un angolo di strada, senza peraltro operare nessuna selezione ma ammucchiando insieme rifiuti organici, carte, contenitori e lattine varie. Esiste ancora, in qualche punto della mia zona rurale, come certamente in altre parti del nostro amato/odiato meridione, la possibilità di cogliere nell’aria la fragranza del pane che sta per uscire dai vecchi forni a legna di qualche contadino che, nonostante tutto, continua imperterrito la sua attività/passione di fornaio artigianale: la domenica mattina è tutto un tripudio di aromi, di fragranze, di profumi provenienti dalle masserie rurali; lì, lontano dai rioni di cemento della città metropolitana, è tutto un mondo che ancora resiste all’opprimente frenesia dell’usoegetta, dell’accaparramento a tutti i costi di qualsiasi bene e di qualsiasi comodità, più o meno utile.

E da qualche parte ancora una donna subisce e perisce, sottomessa e imbrigliata in abitudini secolari, che la vogliono inferiore e limitata, priva di ogni diritto. Eppure, abbiamo eroine e scienziate, ricercatrici e astronaute, donne che con la loro intraprendenza e la loro determinazione, hanno cambiato il mondo e dissolto ogni pregiudizio su di loro.

Ci sono posti e tempi ancora gretti, oscuri, in cui qualcuno si prodiga per denigrare, umiliare, torturare, offendere e persino uccidere un altro, un suo simile, un suo parente, la moglie, l’amante, il padre, la madre, gli zii; c’è ancora chi tradisce, da qualche parte, chi trama nell’ombra per sopraffare l’altro, per prendersi meriti non suoi; e c’è ancora chi calpesta la libertà e i diritti degli altri, chi pretende il pizzo da onesti commercianti, chi rapina, chi sa manipolare e plagiare il suo simile per trarne vantaggio personale. C’è chi istiga, chi inculca sensi di colpa per ottenerne buona possibilità di gestione personale. Esiste sempre, da qualche parte, qualcuno che ti impone subdolamente modi di agire e linee di pensiero convincendoti che è giusto e sacrosanto, per il bene di tutti. Esiste l’inganno, l’ipocrisia, la malafede.

Ma esiste anche, da qualche parte, ancora la bontà d’animo, il prodigarsi per gli altri, l’aiutarsi a vicenda, l’essere consapevoli dei propri talenti, l’essere coerenti e schietti nei confronti di tutti, il saper condividere le ricchezze della natura e rispettarle.

L’augurio è che tutti possano acquisire consapevolezza della propria umanità e del grande valore della vita, aborrendo ogni crimine e ribellandosi ad ogni azione che possa provocare conflitti umani e sociali.

Parole grosse, per una cultura e per una considerazione dell’essere umano che ancora non c’è, e che forse non c’è mai stata e mai ci sarà, dacché l’uomo è animale sociale ma che tende a prevalere sempre sugli altri, per timore che proprio l’altro possa a sua volta sopraffarlo, per invidia, per gelosia, per antipatia, per ignoranza. È dall’assassinio di Abele che l’uomo è in guerra. E non c’è giustificazione che tenga.

Parole grosse, certamente! Dovrà sorgere un’umanità migliore, più consapevole della propria preziosa esistenza su questo pianeta, più incline alla convivenza e alla condivisione dei valori e dei beni. Parole grosse, sì, forse retoriche e inutili, disperate.

Tentiamo di ricucire qualcosa, qualcosa che tenga insieme il tutto, dalla vita alla morte, dalla fragranza del pane appena sfornato al gesto di abbandonare su un marciapiede un cumulo di spazzatura alla rinfusa, dalle lacrime di gioia che ti dona un figlio appena nato, al pianto di rabbia nel vedere una città bombardata e gente assolutamente innocente, novelli Abele, soccombere ai prepotenti.

La poesia può essere questo legame, questo canto sublime e accorato che lega ogni cosa e che mostra la nostra vera umanità.

Per questo, ringrazio ancora tutti i poeti che hanno aderito a questa mia iniziativa, e in particolare i dieci autori di questo volume. Buona lettura!


Giuseppe Vetromile

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                                                      PATRIZIA BAGLIONE


C’è un’inquietudine romantica nei versi di Patrizia Baglione, giovane poetessa del frusinate ma già determinata nel voler farsi apprezzare grazie ad un bagaglio culturale e poetico di indubbia consistenza. E questa inquietudine, o meglio insofferenza, emerge dalla consapevolezza dell’asperità del mondo circostante, e finanche dei sentimenti, quando il sogno di una realtà illuminata e avvolta dal sole dell’amore e della schiettezza nelle relazioni umane, si scontra con il mondo dei pregiudizi e degli stereotipi. La sua determinazione di volare in questi sogni, nonostante le burrasche della quotidianità, prefigura il suo obiettivo personale, e poetico, costruito con un procedere laconico ma intenso dei versi.

 

Ho paura del bacio

 

Ho paura del bacio

non del cielo

o del fuoco. Amore

 

non te la prendere

se sono un uccello

capace di volare, nonostante

la burrasca.

 

 

***

 

Croce

 

Il filo che mi lega a te

è lo stesso che inchioda i morti

alla croce.

Dalla carne, oramai lacerata

fuoriesce

la polvere rossa dei papaveri.

Sono un cencio di ossa

sopra

questa trave di legno

in un giorno qualunque

di un mese qualunque.

 

 

***

 

 

A che serve un cielo di stelle

 

A che serve un cielo di stelle

quando, già nel tuo ventre

riesco a vedere l’alba

e udire

con note angeliche

le voci delle fate. Dimmi

 

cosa me ne faccio delle stelle

se poi

vivo solo di te

e appena te ne vai

torna il buio nella stanza.

 

 

***

 

Notte di luna

 

Veglierò in silenzio sul tuo respiro

mai disturberò

quel ritmo frenetico.

Nella lunga notte dei desideri

ho cercato di rapire

il tuo odore.

Come un libro, mi sono

aperta a te. Hai sfogliato

per bene la mia anima.

Poi

ho catturato le tue membra

e le ho mostrate

al mondo dell’impossibile.

 

***

 

 

Il sasso è più vivo di me

 

Il sasso è più vivo di me:

calmo e sereno

passa la vita senza porsi

troppe domande

apprezza, quello che viene

prova pazienza e fiducia nel giorno.

Io me ne sto

qui ad aspettare

un amore di cui, non si sa l'esistenza.

Non provo gioia, piuttosto rancore

del tempo passato

così malamente - come una spina

dura e costante

capace di solcare

tutto il terreno.


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                                                     EMILIA BARBATO



Della milanese Emilia Barbato, di origini napoletane, piace l’immediatezza del dire poetico, essenziale nei brevi versi che, tra l’altro, custodiscono una forte allegoria nei confronti della vita, anzi di una vita da ricostruire, un’esistenza che rinasca dai semi e dalla terra ben preparata e nutrita. Ricorre spesso, infatti, a metafore che si rifanno alle necessarie potature ai fini di rendere i virgulti più sani e più produttivi, in una terra prevalentemente smossa e disordinata, se non addirittura avvelenata. Questo desiderio di spoliazione da ogni surplus inutile, di mettere a nudo le verità e di sfrondare, potare, gli animi affinché risorgano più schietti e genuini, è trasposta dunque nella quotidianità delle azioni e delle relazioni, ove è proprio con la poesia che è possibile una traccia, un’indicazione, una speranza, un rinnovamento.


Capogatto

 

1

 

Separo tutto,

asporto il ricordo

dell’ultima propaggine

delle tue mani nel mio corpo

moltiplicato da ulteriore nudità

e qualche menzogna,

dissipo finanche la voglia e l’ipotesi

di un uomo che mi risolva.

 

 

2

 

Sotto le cattive stagioni

mi incurvo, mi interro

– ho un taglio – protendo

alla fine dei sarmenti stanchi,

tuttavia, nella terra

modulo un vagito – attecchisco -

fuori di me schiudo

gemme, cresco una figlia.

Qui – dove separano –

stringo dipendenze

e autonomia, morte e vita:

l’archè.

 

 

3

 

Potare è un movimento sapiente,

la cruenza necessaria dell’agronomo

sui capi a legno perché

i tralci gemmino,

recidere è il tono ubbidiente

della mia voce

all’impeto della mente

affinché il cuore, tremando, taccia.

 

 

4

 

Vedi, così come il pampino usa

i colori strepitando tutto

il suo bisogno di nutrizione

e la misura esatta d’acqua per i frutti,

io trattengo l’eco di una parola,

l’amplifico nella voce delle cose,

allontanandomi quel poco dalla perfezione,

per non turbarla, per coltivare la felicità.

 

 

5

 

La strada del germoglio tra i nodi

è affollata di indugi,

di fratture, soccorrono

le gemme di controcchio,

premi qui,

sulla bocca, forte sul petto,

conduci nella mano questo tremito di speranza,

nel calore le mie temibili muffe.

 

 

6

 

Disponi le mie gemme dormienti

nel verso giusto,

dipana il verde dei germogli

sul tuo soggetto vigoroso, rispecchiando

affinità e epoca dei bocci,

segno teneramente la tua corteccia

con un’impronta trasversale e una longitudinale

traccio la sacralità in cui mi innesto.

 

(da Capogatto, Puntoacapo Editrice, 2016)

 

***

 

Minutissimi relitti alla deriva,

le teste canute nel sonno

inclinate su un lato,

naufragano qualche parola.

Si distingue una litania,

resta sospesa nella sua imperfezione

eppure propaga il senso e il suono che tuona

nell’aria immobile della stanza.

– Gesù Giuseppe e Maria

vi dono il cuore e l’anima mia –

 

(da Il rigo tra i rami del sambuco, Pietre Vive Editore, 2018)

 


***

 

L’uomo che veniva dal mare,

una coppa Oribe per Orsola

“nuda, bianca, imposseduta”

nei collage di Bodini, la fame

di poesia, pomo, ponte sia

da te a me lingua, parola,

bocca, aspirazione roca

di una bacca intradotta.

 

(da Nature Reversibili, LietoColle Edizioni, 2019)

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                                                                GIOVANNI BRACCO


Di Giovanni Bracco, giornalista e musicista salernitano di Polla, residente a Roma, è da apprezzare la morbidezza di un afflato poetico lirico e ben modulato e strutturato attraverso un percorso sostanzioso e intenso di emozioni e stati d’animo. In questo breve poemetto, che fa parte di una raccolta pubblicata da La Vita Felice, nota editrice milanese, la pacatezza del suo dire si accompagna verosimilmente ad un grande e controllato trasporto emotivo, quasi erotico, in giusta misura come delicata piccantezza degli enunciati. L’evidenza di una passione forte che si dipana nei gesti calmi di una quotidianità di piccole cose, come il fumare una sigaretta, si manifesta nell’intimo desiderio di interiorizzare, quasi di indossare, gesti e corpo dell’amata, in una mutua e sublime congiunzione di sensi.


Otto poesie d’amore

  

I


Le grandi mani calme.

Un’altra sigaretta

fuma tra le tue dita

lunghe come il volo di un airone.

Mani che indosserei come un maglione

caldo del tuo sangue e del tuo odore.

 

Lontani dall’inverno bianco e azzurro,

una stanza segreta

e mani grandi calme lunghe dita.

 

 

II

 

Se il tuo viso apparisse per incanto

anche in una notte così calma,

potrei chiederti con gli occhi soltanto

di respirarmi addosso, respirarmi

dentro la bocca e nel mio respiro

stesso, per trattenerti ancora, come

il pensiero purissimo dell’aria.

 

III

 

Tremo all’idea della tua presenza.

Vertigine l’assenza.

 

IV

 

Di notte aspetto

come albero a Levante

i tuoi occhi. 

 

 

V

 

Nel mio pensiero sei la pura bocca.

Il bacio che si ferma sopra il filo

del tuo respiro è l’idea di un bacio

accostato all’idea della tua bocca.

 

Ma il fremito sottile della foglia

arresa a un soffio, calda in trasparenza:

così, dischiusa e assorta,

se bacio il tuo respiro, più vicino.

 

VI

 

Febbraio

 

Che notte strana, calda. Lo scirocco

ha imbrattato di lacrime sabbiose

le aiuole miserabili, il cortile

del condominio e tutte le automobili.

 

Come a una gogna appendo le passioni

all’arancio svogliato dei lampioni

perché tu possa riderne

e io farti tornare

una donna tra tante.

 

 

VII

 

Di notte nella stanza luci rosse

di radiosveglia tracciano

ai pensieri la pista di atterraggio:

ma io li ricaccio in volo

nella profondità folle dei sogni.

 

Dovrei farlo stanotte che mi manchi

dentro la pancia, nel mio nero cuore.

Ma è un grumo nero il cuore

e tu farfalla vento verde neve.

 

 

VIII

 

Aprile

 

Ora aspetto che passi per suo conto

questa notte, mentre ai pini di Roma,

impassibili come il Vittoriano,

a due passi da una porta a me chiusa,

ho spiegato che tu sei il mio dolore.

 

Ho incrociato un turista solitario

che prendeva la sua felicità

da una birra, seduto sulla strada

dei Fori, come io feci sulla spiaggia

di Colonia sul Rio de la Plata.

 

Forse il varco è dissolversi, stranieri,

come nel temporaneo oblio di un viaggio.

 

(da Le grandi mani calme, La Vita Felice, Milano, 2015)

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                                                    FELICIA BUONOMO


Felicia Buonomo, da attenta osservatrice dell’odierna società, ne trascrive con la sua esperienza giornalistica di prim’ordine, supportata però da una grande vena poetica, i contrasti e le ambiguità, sovente celate da mielosi compromessi e ipocrite omologazioni di comportamenti. La denuncia è velata ma evidente, traspare in filigrana dai versi nervosi e impietosi come lo sono i fatti narrati. Un corpo poetico che reclama giustizia e comprensione, unione e amore, in un consesso civile dilaniato e irriverente, sovente egoista. E la poesia è questo canto contro ogni negatività che possa disarmonizzare l’umanità, quando si è consapevoli di avere in sé i geni della violenza.

 

Sangue corrotto

 

In principio fu il sangue corrotto

dall’alcol di A. – mio fratello. Siate

fecondi e moltiplicatevi, la

maledizione. Mamma e la paura:

«Ho in me i geni della violenza».

Si pensa come rea mai confessa.

 

 

***

 

 

Merletto

 

 Babbo c’è un assassino,

       non lo fare bussare

  Babbo c’è un indovino,

non lo fare parlare […]

                                  E c’è un forte rumore di niente.

 

                                        Francesco De Gregori

 

«Aspetto papà», ha detto. Aveva

quattro anni, due di chemioterapia.

Papà, due di immotivati sensi di colpa.

Era mia sorella. Se n’è andata tra le lenzuola

con il merletto in pizzo di mamma, che ha scelto

la morte per aprire il corredo avuto in dote.

 

«Non è stata la malattia a portarsela via»,

dice papà. «Non ho saputo proteggerla».

Papà si crede Dio, che di vita e morte decide.

 

 

***

 

 

Oppressore

 

              L’oppressore si diletta.

                                                        Ha battuto la mia bocca.

  Non ho un compagno nella vita.

          Per chi posso essere dolce?

 

                   Nadia Anjuman

 

Lo dico al passato?

O al domani

sempre uguale alla mia pena,

che l’entusiasmo facile

è un tentativo fallito,

quando l’oppressore si diletta.

Vivo alla periferia dei pensieri altrui.

Lui dice che faccio la vittima.

La dottoressa dice che lo sono.

Ho dimenticato la parola io.

 

 

***

 

 

Ostia

 

Non è leggerezza di fiore questa condanna.

Come un masticare di ostia che chiede redenzione.

Si scioglie in fretta, taglia il tempo necessario

a passare in rassegna l’elenco dei peccati

che mi getti addosso. Eppure sarei dovuta partire,

lanciarmi vuota nella libertà che pesa. Non aspettare

una benedizione, un segno di croce che allarghi

alla vita. Eppure rimango, mi punisco, mi rinnego.

Potrei silenziarmi, ma canto un urlo. Tu non senti.

 

 

 

***

 

 

Offerta

 

Degli anni in cui si disegna

la primavera dell’esistenza

rimane ancora

la mia mano cucchiaio:

offerta

senza ricevuta.

 

 

***

 

 

Carcassa

 

Come una iena apro lo spazio

tra pareti di stomaco vorace.

La carcassa dei miei fallimenti

attende di essere divorata.

Famelica ingurgito i resti.

Sopravvivo di carogne, non rido.

 

(da Sangue corrotto, Interno Libri, 2021)

 

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                                                     LAURA CINGOLANI

 

La poesia è a volte apertura improvvisa dell’inconscio da cui scaturiscono immagini, intenzioni, sogni, riflessioni e considerazioni che si sovrappongono, si attorcigliano gli uni agli altri, si manifestano in dualità o in molteplicità contrastanti e addirittura annichilanti reciprocamente; il poeta con la sua esperienza e il suo stile mette ordine, cerca di conferire un senso al magma che ribolle interiormente, studia con arte il giusto telaio su cui ricomporre organicamente il tutto. Laura Cingolani sa bene tutto questo e lo evidenzia in modo davvero eccezionale in questi versi a catena, che si susseguono apparentemente svincolati l’uno dall’altro ma che in realtà puntano tutti sulla problematica dello straniamento sociale ed esistenziale, dei sogni dimidiati tra realtà e desiderio di cambiamento (Le speranze sempre quelle…), e soprattutto della consapevolezza di un vincolo ineluttabile che ci costringe ad una quotidianità dettata da altri (Andare per conto di) e che aliena la nostra capacità di scelta e di critica.

 

 Andare per conto di

 

Vado per conto di

Nere cascate di stelle

Crescono immense ai bordi della strada

Le speranze sempre quelle

Di preservarsi intatti

Di non cambiare nulla

Non disturbare il destino

Lasciandolo dormire

Però questo piano ci cade spesso addosso

E noi lo salutiamo

Diciamo - Benvenuto

Vuoi un caffè

Aspettiamo che si sieda

Per sederci insieme a lui

Ci spiegherà le sue ragioni

Tiene molto a noi

Ha sempre saputo come prenderci

Dove portarci

 

 

Parliamo del più e del meno

Senza tirare le somme

Crediamo sia meglio così

Ne percepisco il senso

Semplicemente chiudendo gli occhi

E ricordando la strada

Ripercorrendola altrove

Riassaporandone i frutti

Andando di nuovo per conto di

 

 

Terre a cui sono promessa

Mondi a cui sono connessa

Appoggiando le palme dei piedi una dopo l’altra

Osservando le cose normali

Producendo azioni senza scopo

Sacrificando tutto

 

 

No non posso – disse

Cercando di tornare al passato

Poi si riprese

Bagnò il suo viso con acqua fredda

Sapeva che era arrivato il momento

Allora tornò di un poco avanti

Si voltò

Ci guardò addosso sparandoci con gli occhi la sua paura

Mentre nel frattempo si trasformava

Sciogliendosi in lacrime

Scendeva come pioggia

Credeva non potesse mai accadere

Poi con uno scatto si ricompose

Guardò di qua e di là

Accennò un breve sorriso

Posso – disse

Adesso posso

I suoi occhi si aprirono fino allo stremo

Ci incamminammo insieme

Per giorni e giorni

Senza badare allo sforzo

Senza dormire la notte

Senza pensare al passato

 

 

E adesso che è quasi giorno

Andiamo incontro al mattino

Doniamo felicità a chi la vuole

Andiamo ogni giorno lontano

Non abbiamo bisogno di niente

Perdiamo soltanto le cose

Godiamo di foglie che luccicano

E nel frattempo andiamo

Andiamo per conto di

 

 

Quello che passa attraverso

Quello che ci cade addosso

Tutto quello che accade

In tutti i momenti del mondo

In tutti i pensieri del tempo

 

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                                                    GABRIELLA GRASSO


È profondo il sentimento per la terra e il senso di appartenenza ad essa, in Gabriella Grasso, poetessa siciliana che si è fatta apprezzare dal mondo letterario nazionale per i notevoli premi ottenuti in concorsi letterari importanti come il Lorenzo Montano. Questa sua predilezione nei confronti della natura e in particolare per il suo universo siciliano così ricco di colori, calori e fragranze, si delinea lungo il tessuto poetico dei suoi versi, sempre aperti e luminosi, caldi di una passione quasi atavica, che fa germogliare nei cuori semi di amore e di speranza. Sono versi che cantano la gioia di vivere abbracciati idealmente alla terra, desiderandone la presenza coinvolgente fino ad occuparne, con le proprie cose, ogni anfratto, ogni tana. Il richiamo alla genuinità di una vita scevra da ogni sorta di inutile sovrastruttura (ti aspetto qui…) è evidente e la poesia di Gabriella Grasso può essere anche interpretata come una complessa e grande metafora dell’esistenza, da trascorre qui, su una terra schietta e amica, vera culla di vera umanità.

 

Ti aspetto qui

 

Ti aspetto qui

sono un po’ stanca io

non vado oltre

 

È stato un viaggio

questo radente al muro

di sciara a secco

roveti innocui

lucertole beate

nella loro indifferenza secolare

 

Tu vai

a conquistare il mondo

ad affrontare il drago

che senti mugugnare

nell’antro del vulcano

e vincere quella medaglia antica

che spetta a chi ha coraggio

a chi non teme pioggia né fatica

 

Io resto e qui mi troverai

se vuoi tornare

e ti offrirò dal mio grembiule

le more che ho raccolto lungo il muro

nelle ore silenziose del mio stare

 

(da Quale confine, edizioni Kolibris, 2019)

 

 

***

 

 

Zolla tra zolle

 

Vorrei una tenda

in ogni angolo buono che mi ha dato

fiato

La pianterei puntando al cuore

di quella terra che mi è stata nido

e ci verrei

ci tornerei per ritrovare

sentore della vita

 

Mi scaverei una tana in ogni luogo

dove ho provato pace

per ritornarci col pensiero

e risucchiare

la linfa buona delle sue radici

 

Sparpaglierei i miei oggetti in ogni buco

in cui vorrei lasciare impronte e giochi

inutili trastulli

tracce opache

incomprensibili agli altri

evaporate

dagli alvei della storia

 

Mi illuderei d’avere avuto casa

nelle case degli altri

e dentro i covi degli animali amici

Sì, d’essere rimasta

foglia tra foglie

zolla tra le zolle

di una terra materna

illimitata

 

 

(da Il Generale Inverno, Il Convivio ed., 2021)

 

 

***

 

 

Gli adolescenti

 

Nelle ore in cui il contorno

delle cose si sfaceva

lasciate le biglie e le bici

seduti appartati sul bordo affilato

di una panchina di ferro

 

nervosi e con mani casuali

sfasciavamo le rose

senza mai alzare il viso

e guardarci negli occhi

 

quei petali sparsi

tra i laterizi scartati

e le basole nere

ci indicavano a sera la strada

per ritornare a casa

 

(da Sciott, inedito)

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                                                           SILVIA ROSA


C’è un viaggio da fare, ma è piuttosto un percorso, una linea progressiva di movimento appena appena tradita da una blanda (o solidissima?) metafora della vita. È ciò che traspare dai versi di Silvia Rosa, validissima e nota poetessa torinese che si prodiga per la diffusione della cultura letteraria attraverso svariate pubblicazioni e presenze su siti internet di settore molto qualificati. E sono dunque versi che si susseguono con la giusta misura di enigmi e di certezze, anche minime, come lo sciabolare dei fari antinebbia e gli improvvisi abbagli delle luci di fuori. C’è in tutto ciò un senso di insicurezza, che richiama la precarietà dell’esistenza, la redenzione del tunnel, che ci sia cioè finalmente salvezza all’uscita. È questo sentirsi sospesi, tra una notte sicura sulla destra e il chiaro del nuovo giorno che si annuncia subito dopo, che caratterizza la poetica di Silvia Rosa nei brani che qui propone; una struttura poetica che riflette sul senso di appartenenza a questa realtà, per quel poco che possediamo e su cui fare affidamento: l’autenticità d’essere, cioè quel poco di reale e consolidato che ci resta.


Dentro una pozza di cielo

i pendagli degli alberi tremolano

in questo giorno che un calendario

ha nominato Primavera,

e risucchia in uno slargo acceso

tutta la terra che ci resta

 

Dove siamo, mentre la notte

entra sicura sulla destra e vira

al chiaro che svanisce? Dove vanno

le cose che si illuminano,

quando lasciamo un punto piccolo

di fuga per non dimenticare

di fiorire lungo la strada

del ritorno?

 

 

*

 

All’estremità della notte le occhiaie

ci confortano, piccole chiazze di lune

piene sul volto. La redenzione del tunnel,

con i suoi boati corvini e le falene-bussole,

è una strada d’alluminio che accoglie

i nostri fantasmi, a 150 km orari.

Il roseto di abbagli ed errori resta fuori

da questa griglia di Hermann: le fucilate

degli antinebbia e i rimpianti sono espunti

da un elenco di cifre binarie, o bianco o nero.

 

Manca profondità a questo andare,

uno sguardo d’insieme, il talento

di sopravvivere alle lesioni del buio

 

 

*

 

 

Non è chiaro se dopo nebbie fossili

e giorni di Nigredo, se dopo tutti

gli abbandoni in cui ci siamo persi,

arriveremo alla zolla dell’aurora

o al margine radioso d’un suburbio

con blocchi di edifici in successione,

una schiera di giganti cenerini

che roteano l’occhio dei balconi

verso l’antenna 5G puntata a Est

 

L’impasto di paure nello stomaco

e gli sguardi strabici, un’infinita nausea

a orientare i nostri passi ondivaghi:

sapessimo trovare una stazione

di servizio, almeno, dove mettere

a sedere ciò che resta del presente,

dargli un alibi per colazione,

mentre cerchiamo di inviare

a chi è rimasto indietro le coordinate

esatte della nostra posizione

 

(siamo a 74 centimetri circa

da qualsiasi morte capiti in sorte)

 

 

*

 

 

Perforando la fibra sintetica

che oscura l’orbita del sole

scendiamo a precipizio lungo

il rivo amniotico, con la brina

degli inizi addosso e le palpebre

incollate, portiamo l’impronta artica

di monadi inscritta sulla pelle,

il freddo come una condanna

 

così veniamo al mondo

˗ o scompariamo? ˗

soggetti all’azzardo degli eventi

fra scorie di arenile e uranio

improvvise fluorescenze, scheletri

antropoidi e Intelligenze Artificiali,

assomigliamo alle falene Saturnia

e Cobra che infuriano le ali, confuse,

quando scambiano la luce al neon

per un destino luminoso d’astri

 

(da Tutta la terra che ci resta, Vydia Editore, 2022)

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                                             CARLA SAUTTO MALFATTO


Attenta osservatrice della realtà esterna e dei mondi segreti dell’inconscio, la ferrarese Carla Sautto Malfatto, poetessa e artista di grande valore, vincitrice di numerosi e importanti premi letterari, sa entrare con la sua arte, il suo sguardo e il suo cuore, nel panorama che la circonda e l’avvolge, sia che si tratti di immagini naturali, come l’abete vecchio, che suscita in lei sentimenti di meraviglia e di compassione, sia che si tratti dei rapporti familiari. In tutto questo, il suo impianto poetico si fonda essenzialmente sul mistero dell’esistenza, sull’imponderabilità delle vicende umane e del destino: la sensibilità artistica dell’autrice rafforza questa amara sensazione, invitando a traguardare oltre la sottile filigrana della futilità delle cose e della natura, rispetto alla consistenza e all’autenticità dell’uomo.


Gente di nebbia     

 

Dimmi cosa vedi

quando penetri le nostre nebbie

che si affollano

corvi al pasto

di luci, strade e umori

e a banchi si affastellano

in densi muri

d’angoscia e d’abbandono

o ad improvvisi veli

spettri ad altezza di naso.

Noi siamo lì

insondabili

gente di nebbia

dalle bocche a taglio

ermetici ricci indaffarati

sornioni e maledetti

come i gatti neri.

 

(da Troppe nebbie, Edizioni Il Saggio, 2019)

 

 

***

 

L’abete vecchio

 

L’ho visto tante volte piegarsi, quel pennone

alle bufere da temere di trovarmelo in casa

spuntato e rinsecchito come chi non cede

nemmeno davanti all’evidenza di braccia scrostate

da non essere più riparo per i nidi,

figuriamoci utile per se stessi.

Se ne ciondolava così, i rami più bassi sulla strada

tagliati uno e due e tre – pericolo per i passanti –

e sempre più nudo, tranne che di protervia

il re dei boschi montani, ad un tiro di schioppo dal Po,

a reggere la neve con conati di schiocchi.

Ma il suo dovere lo faceva, vecchio alpino

ultimo avamposto ad un sole umido che schianta

anche i pensieri in apnea della bassa,

e poi così un giorno a ritrovarselo

brunito d’aghi al tramonto – ma non per quella ragione –

e prendere accordi per abbatterlo.

Se avesse potuto si sarebbe portato via con le radici

per andare a morire altrove e invece urlava

nella mia testa mentre lo sezionavano, a falde,

a tocchi, a tonfi, e rabbrividiva al solletico della sega.

L’ho già bruciato, secco com’era, nel camino

ma con certi sibili, botti, sputi di linfa e lanci

incandescenti – e la pelle rugosa a trasfigurare

in interni di brace – come un’anima dannata,

e ho giurato di non piantarne più, al suo posto,

per rispetto e dispiacere, e ne tengo

un legno, per ricordo, che si unge circolare al cuore,

ma dubito sia balsamo del suo perdono.

 

(dall’Antologia del Premio Voci Verdi, Editrice Artistica Bassano, 2018)

 

***

 

Tenerezza

 

La stretta leggera e fugace

di mio figlio, stamattina

sulla mia curva dell’omero:

–  Come va? –

al profumo di doccia e intenzione

mentre mi era alle spalle

lo so

che mi deve bastare al suo riserbo

esagerato – e ogni tanto buttargli

le braccia al collo dicendogli

che ne ha bisogno –

è un buon risveglio

lo spiraglio di una soluzione

per quel suo destreggiarsi su un’asse d’equilibrio

illudendosi d’andare avanti così,

all’infinito.

Se mi desse la sua pena, saprei

come sbrogliarla, negli anni canuti d’esperienza

appunti accumulati di cui i figli non si servono,

mi chiedo

se non farei più danno

e possa bastare lasciargli stringere appena

la mia spalla vecchia e ardita

che ancora c’è – hai presente, lo scoglio

appena affiorato e incrostato nella tempesta? –

e alitare per rinnovare lo stoppino di un faro

quasi esaurito

calmo solo in apparenza

nell’attesa che trovi da solo il porto

e mi lasci da lontano

guardarlo prender riva, salvo.

 

(inedita)

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                                                      ANTONELLA SICA


È forte e perentoria, la poetica di Antonella Sica in questi versi tratti da L’ira notturna di Penelope. La poetessa genovese, peraltro impegnatissima anche in campo cinematografico e ideatrice e curatrice di diversi festival e rassegne artistiche e letterarie, non lascia dunque spazi inutili nel suo dire deciso e schietto, e i versi sono modulati su questo suo accorato dichiarare tensioni e dissidi, sgretolamenti e dissoluzioni, in un mondo che appare calpestato e offeso, un mondo di cui fa parte anche l’umanità con la sua carne e persino il suo spirito corrotti dal tempo e dalle ignominie che l’uomo stesso provoca e ritorce contro la natura stessa. Ma proprio in questa realtà, dove ogni cosa sembra inquinarsi e guastarsi, resiste la metafora di Penelope, che imperterrita continua a tessere la sua esistenza, nonostante ogni ferita e ogni avversità, ma dando uno sguardo di sottecchi (nella coda dell’occhio) ad un possibile futuro di riscatto.

 

Dissoluzione n. 1

 

Tagli sui confini sordi del corpo
gravità spezzata in varchi
per l'incanto sonoro del merlo
mangiatore di vermi
del tordo bottaccio, del fringuello.
Scivola il sangue nelle grondaie
pettirosso dissolto nella pioggia d'aprile
si guasta la pelle all'acqua che cade
battono il tempo le ossa lavate
liberate dal cuore al biancore dell'alba.

 

 

***

 

 

Dissoluzione n. 2

 

Sola splendo d’ogni ferita il sole
che spacca i semi nella culla del sangue;
radici tenaci di gramigna corrono
sotto la pelle, si spezzano alla luce
i bulbi di ranuncoli azzurri
nel cavo degli occhi, sbocciano
ai piedi papaveri dai morbidi steli
coi petali curvi, la gialla calendula
ricama le mani lenite e il cuore è terra
che batte alla pioggia che cade.
Non essere. Non essere più
se non qualcosa che si lascia essere
ciò che è.

 

 

***

 

 

Si è complici di un sintomo

un comune dolore d'essere

periferia abbandonata, arsa

da cemento e sterpaglia.

 

Amore è solo un segno

posto troppo in alto

per le mani.

 

 

*

 

Ho slacciato i passi al tempo

estinte le radici fino al sangue

ora dondolo le gambe sul vuoto

fra le grida limpide del volo

 

un vociare infantile sale, c'è aria

di mare che solleva le gonne

ridono le donne in crisalidi di seta

 

in questo angolo terso della vita

svestita d'ogni sguardo mi sposto

fuori campo, nella coda dell'occhio

 

(Da L’ira notturna di Penelope, Prospero Editore, 2022)

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                                                         SIMONA VOLPE

La consapevolezza del tempo che scorrendo ineluttabile vanifica le impronte di vita che si delineano momentaneamente sul tessuto della propria anima, della propria esperienza, e un’attesa incerta, più spasmodica dell’attesa stessa: sono queste le caratteristiche fortemente simboliche che conformano la struttura poetica dei versi di Simona Volpe, validissima autrice di Martina Franca ma originaria di Molfetta. Sono versi che vibrano di malinconia, di estraneazione, di abbandono, ma nello stesso tempo vi è traccia di un forte sentimento nei confronti della natura, al cui ritmo vitale aderisce sincronico l’anima e il cuore: “E divento battito, / chiaroscuro di notti / interminabili e assetate / che indugiano / al pontile fino all’alba”. Un pontile che è in effetti il punto d’osservazione avanzato dell’autrice, che si protende metaforicamente sulla pericolosità e sull’incertezza dell’esistenza, attendendosi albe colme di speranza.

 

Alba sul pontile 

 

L’incertezza 

dell’attesa nell’attesa,

la delirante speranza 

riposta nell’onda breve 

che immortale si sussegue.

Ridursi a (re)stare, 

professando il divino 

ubriaco presagio

che si fa pelle con me.

Senza più peso specifico, 

forma, contorni, 

divengo anima nebulizzata 

dissolta nell’afa

di un agosto comprato, 

così mi perdo 

tra le doghe verniciate 

gonfie di stagioni.

 

E divento battito,

chiaroscuro di notti 

interminabili e assetate 

che indugiano

al pontile fino all’alba.

 

 

***

 

 

 

Giro intorno all’isolato 

 

E poi succede 

che tenti solo un abbandono.

Parti senza un dove

e sai che in quell’andare

vorresti posare i pensieri

in un giardino pensile 

vista mare

tra i rampicanti che scivolano 

lungo le facciate di graffiato 

di una qualche appartenenza.

 

Lasci loro acqua e cibo

gli insegni

a prepararsi la cena

a respirare da soli.

Sollevandoti dal Dovere

ti sorprendi a rinascere

dalla roccia carsica

rotta dal seme

e torni ad appartenerti

in modo primordiale.

 

Mastichi con denti nuovi

l’aria spessa 

che profuma di scelte..

scaricando l’orologio

contando solo i passi.

 

 

***

 

 

Sogno

 

La bellezza infinita

dell’abitarti dentro;

sei quel senso 

ristretto e profumato 

di un sorso di caffè 

che risveglia dai torpori 

di un sonno leggero

sublimando il soffitto.

Così 

mi slego dal tuo Io 

e stringo forte 

questo lembo di mattino

che mi tremola nel palmo.

 

Ti accarezzo 

ma non sei velluto..

piuttosto 

agrifoglio pungente di rubino, 

mi ammacchi il respiro

scivolando 

dentro un abbraccio fermo

che mi chiude a chiave il cuore,

mi dona un altro sogno

e se ne va.

 

(da Occhi salvia e zafferano, Bertoni Editore, 2021) 

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Ogni cosa ripiglia il suo grigiore e si dispone aderente al limbo

s’incastra nel reticolato dello spazio fino al confine

dove l’ombra non c’è

perché è già stata diluita al di qua

mescolata alle divagazioni di luce a seconda

del nostro umore

 

Che altro siamo mia cara

se non infingimenti e volti desolati

appiattiti e sbiancati dal canovaccio del giorno idem

che altro

se non abitudine e amen e a tutto-non-si-può-obbedire

 

Così ogni cosa ha l’ombra del diavolo dietro o sotto

nascosta dall’apparenza

come una pietra innocente che celi il verme

o come una mano che si prepari ad uno schiaffo

sconvolgente ed inatteso

 

Stabilisci tu mia cara dove proseguire in questo panorama

dove tutto è già predisposto fino alla fine

e mai un grido o un boato di cielo

s’alzerà sulla rigida planimetria

 

dell’assodato nostro cosissìa

 

(dalla sezione “Planimetria del crepuscolo inverso” in Percorsi alternativi, Marcus Edizioni, 2013)


Giuseppe Vetromile


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                                                   NOTE SUGLI AUTORI


Patrizia Baglione

Patrizia Baglione è nata ad Arpino, in provincia di Frosinone, nel 1994. Ha composto la sua prima poesia all'età di tredici anni. Diplomata in “Tecnico della Grafica Pubblicitaria” nel 2013. La mia voce, edito da Quid Edizioni nel 2019, è il suo libro di esordio: una raccolta di poesie, scritte durante la sua adolescenza. Nel febbraio del 2020 pubblica con la Casa Editice Kimerik Malinconia delle nuvole, la sua seconda raccolta di poesie, nella quale non sfugge alle problematiche sociali, ma anzi le individua, le scova e le disintegra con la sola forza della parola che tocca, nella regola della coerenza, quasi con un ago sottile, il punto nevralgico della sensibilità umana. Quest’ultima raccolta è stata presentata anche sulla nota radio Nazionale “RAI Radio Live”. Ha vinto il Premio alla Cultura al “KALOS 2020 - Premio Internazionale di Arte e Letteratura”, a cura del Prof. Massimo Pasqualone. Da quasi tre anni si dedica anche alla pittura, creando una serie di dipinti in stile moderno denominata "Collezione di bambole". Ha avuto modo di esporre in diverse personali e collettive, tra queste la “Venice Art Gallery” di Venezia a cura del Prof. Giorgio Grasso. Con il dipinto Jole, ha vinto il Premio Creatività, Palermo Artexpo 2020. Personale della Collezione nel marzo 2021 all'interno del “Centro Culturale Meridian” a Mosca, in Russia. Trofeo Leone d'oro per le Arti Visive, Venezia 2021. Giurata del Concorso artistico letterario "Autori italiani 2021", a cura del giornalista Fiore Sansalone. È laureanda alla facoltà di Scienze dell'educazione e arteterapeuta in formazione presso Sipea Onlus, Roma.

 

Emilia Barbato

Emilia Barbato è nata a Napoli nel 1971 e risiede a Milano. I suoi testi sono apparsi in diverse antologie, sulla rivista Il Segnale, Poezia di Bucarest, Immaginazione delle Edizioni Manni e sull’Aperiodico ad Apparizione Aleatoria delle Edizioni del Foglio Clandestino. Geografie di un Orlo (CSA Editrice, 2011) è la sua prima raccolta. Seguono Memoriali Bianchi (Edizioni Smaher, 2014), Capogatto (Puntoacapo Editrice, 2016), Il rigo tra i rami del sambuco (Pietre Vive Editore, 2018), Nature Reversibili (LietoColle, 2019).


Giovanni Bracco

Giovanni Bracco, nato a Polla (Sa) nel 1961. è giornalista, poeta e scrittore. Laureato con lode in lettere all'Università di Napoli con la prima tesi assoluta sulla musica di Nino Rota, diplomato in pianoforte al Conservatorio di Potenza. Vive a Roma dove è capo della redazione dell’agenzia di stampa “Il Sole 24 Ore Radiocor.” Con l'editore La Vita Felice ha pubblicato le raccolte di poesie Le grandi mani calme (2015) con prefazione di Elio Pecora e Il nostro tempo (2017) con prefazione di Annelisa Alleva. Ancora per La Vita Felice sono usciti, nel 2019 il libro di poesie Il mare mi ha deposto dalla croce – Mediterraneo, nel 2020 Sull’orizzonte dei binari in fuga - Carme famigliare  e, nel 2021, Urne. Con Cyberwit.net ha pubblicato Nocturnes (2021) con poesie nelle versioni in inglese e in italiano. Ha pubblicato poesie sulla rivista Nuovi Argomenti, sotto la direzione prima di Enzo Siciliano e poi di Dacia Maraini, e su Poeti e Poesia, diretta da Elio Pecora. Tradotte in inglese, sue poesie sono state accolte da Blue Moon Literary and Art Review (California) e Taj Mahal Review (India). Tradotte in spagnolo, sono state pubblicate da Revista Literaria Alborismos (Venezuela), da Katabasis  (online), Revista Almiar (Madrid) e dalla rivista Zéjel (Siviglia).

 

Felicia Buonomo

Felicia Buonomo è giornalista e autrice. Inizia la carriera giornalistica nel 2007, occupandosi principalmente di diritti umani. È giornalista presso Mediaset e fa parte della redazione di Osservatorio Diritti. Alcune sue poesie sono state pubblicate su riviste e blog letterari in Italia, Stati Uniti e Francia. Pubblica il saggio Pasolini profeta (Mucchi Editore, 2011), il libro-reportage I bambini spaccapietre. L'infanzia negata in Benin (Aut Aut Edizioni, 2020), la raccolta poetica Cara catastrofe (Miraggi Edizioni, 2020) e la raccolta poetica Sangue corrotto (Interno Libri, 2021). Dirige la collana di poesia sociale/civile, “Récit”, per Aut Aut Edizioni.

 

Laura Cingolani

Laura Cingolani, nata ad Ancona, vive a Roma. Si esprime integrando classicismo e sperimentazione, praticando poesia lineare, sonora, visiva e performativa. Dal 1998 i suoi testi compaiono in varie antologie e riviste. Nel 2019 pubblica la sua opera prima: Mangio alberi e altre poesie, Edizioni del Verri, Milano.


Gabriella Grasso

Gabriella Grasso, nata a Catania nel 1971, vive ad Acireale e insegna lettere. Si è occupata di linguistica della LIS, Lingua Italiana dei Segni (Zanichelli, 1998, Del Cerro, 1999), di cui è interprete. Scrive per diversi spazi letterari, nazionali e internazionali.

La sua opera prima, Quale confine, pubblicata nel dicembre 2019 per le Edizioni Kolibris (Ferrara), ha ricevuto un attestato di merito al Premio Lorenzo Montano 2020 e il premio della critica nell’edizione 2020 dell’Etnabook. Un suo inedito ha vinto il primo premio al Sonetto d’argento-Premio Jacopo da Lentini 2020.

Nel novembre del 2021 è uscito il suo secondo libro di poesie, Il Generale Inverno (ed. Il Convivio, Castiglione di Sicilia).

Suoi testi sono stati inclusi in antologie e tradotti in inglese (trad. di Gray Sutherland, di Ana Ilievska, di Chiara De Luca) e in spagnolo (trad. di Emilio Paz, di Antonio Nazaro). In Secolo Donna 2021 (ed. Macabor, 2021) sono presenti sue poesie e un contributo critico sulla sua poetica, a cura di Davide Zizza. Alcuni suoi testi, tradotti da Ana Ilievska, faranno parte di Guide to Contemporary Sicilian Poetry: an Anthology, a cura della Stanford University, in corso di pubblicazione.

 

Silvia Rosa

Silvia Rosa nasce a Torino, dove vive e insegna. Laureata in Scienze dell'Educazione, ha frequentato il corso di storytelling della Scuola Holden. Suoi testi poetici e in prosa sono presenti in diversi volumi antologici, in riviste, siti e blog letterari e sono stati tradotti in spagnolo, serbo, romeno e turco. Tra le sue pubblicazioni: le raccolte poetiche Tutta la terra che ci resta (Vydia Editore, 2022), Tempo di riserva (Giuliano Ladolfi Editore, 2018), Genealogia imperfetta (La Vita Felice, 2014), SoloMinuscolaScrittura (La Vita Felice, 2012), Di sole voci (LietoColle Editore, 2010 - II ediz. 2012); il volume antologico Confine donna: poesie e storie di emigrazione (Vita Activa Nuova, 2022), di cui è ideatrice e curatrice; l'antologia foto-poetica Maternità marina (Terra d'ulivi. 2020), di cui è curatrice e autrice delle foto; il saggio di storia contemporanea Italiane d'Argentina. Storia e memorie di un secolo d'emigrazione al femminile (1860-1960) (Ananke Edizioni, 2013); il libro di racconti Del suo essere un corpo (Montedit Edizioni, 2010). È vicedirettrice della rivista digitale "Poesia del nostro tempo", redattrice della testata online "NiedernGasse", collabora con la rivista "Margutte", con l'annuario di poesia “Argo” e con il quotidiano “Il manifesto”. Si è occupata del progetto di traduzione poetica e interviste di alcuni autori argentini, dal titolo “Italia Argentina ida y vuelta: incontri poetici", pubblicato nel 2017 in e-book (edizioni Versante Ripido e La Recherche).

La sua attività completa, qui:

https://www.larecherche.it/biografia.asp?Utente=silviarosa&Tabella=Biografie

 

Carla Sautto Malfatto

Carla Sautto Malfatto è nata a Ferrara nel 1954. Ha conseguito numerosi premi di podio e riconoscimenti per la poesia, la narrativa, la pittura e la grafica, tra cui la Targa d’Argento della Presidenza della Camera dei Deputati, la Medaglia del Senato, la Medaglia del Pontefice Francesco I, il Premio Consiglio dei Ministri, il Premio Ministero per i Beni e le Attività Culturali, il Premio Unesco, Premi alla Cultura, della Critica, della Giuria; il Premio Terme di Salsomaggiore 2002 per la pittura. È membro di Giuria in Concorsi Letterari e lo è stata in Concorsi Artistici. Collabora con associazioni e riviste di cultura; i suoi testi sono pubblicati su Antologie e siti culturali; cura recensioni, prefazioni, articoli d’attualità (curiosità, folklore). In campo artistico è apprezzata per i suoi tipici “simbolismo-surrealismo” e “reale personalizzato e comparato”, così definiti dal critico Antonio Caggiano; diverse sue opere d’arte fanno parte di collezioni pubbliche e private e sono riprodotte su copertina e all’interno di riviste culturali e libri. Per molti anni ha compiuto volontariato fornendo materiale e insegnamento artistico in scuole materne e primarie pubbliche e private, in pediatria oncologica a Bologna, in corsi per disabili psichici. Ha pubblicato Farfalle e Scorpioni, racconti (Este Edition, 2015) e Troppe nebbie, poesie (Edizioni Il Saggio, 2019), entrambi pluripremiati. www.carlasautto.it

 

Antonella Sica

Antonella Sica, genovese, è laureata in Lettere Moderne. È regista e manager culturale in ambito audiovisivo e cinematografico. Ha fondato e co-diretto il Genova Film Festival dal 1998 al 2015. Ha diretto e realizzato cortometraggi di fiction e documentari selezionati e premiati in diversi Festival.

Tra i lavori realizzati Ballata Trash, cortometraggio con il poeta Edoardo Sanguineti.
Ha ideato e organizzato festival e rassegne cinematografiche, tra cui “X_Science: Cinema tra Scienza e Fantascienza” e FIDRA (Festival Internazionale del Reportage Ambientale). Nel 2014 vince il premio per la miglior silloge del concorso indetto dalla casa editrice Prospero Editore (pubblicata dal medesimo editore nel 2015 col titolo Fragile al mondo). Nel 2017 vince il Premio Internazionale di Poesia Città di Milano con la silloge La memoria nel corpo, pubblicata l’anno seguente da Rayuela Edizioni. Nel 2019 vince il Premio come Miglior Silloge al XX° Premio di Scrittura Femminile "Il Paese delle donne" con la silloge L’ira notturna di Penelope
pubblicata nel 2022 da Prospero Editore con la prefazione di Donatella Bisutti. Suoi testi sono stati pubblicati su diversi blog e riviste fra cui Inverso-giornale di poesia, Versante Ripido, Transiti Poetici, Poesia del nostro tempo, La rosa in più, Le parole di Fedro. Da gennaio 2022 cura la rubrica di videopoesia “Lanterna magica” su Versante Ripido.

 

Simona Volpe

Simona Volpe, nata a Molfetta nel 1973, attualmente risiede a Martina Franca, trascorrendo la sua vita tra la Puglia e la Toscana.

Dopo il liceo classico, si iscrive alla Facoltà di Giurisprudenza a Pisa, città densa di stimoli intellettuali, dove entra in contatto con gruppi universitari di poesia e scrittura creativa per lei molto incoraggianti.

Nella vita si occupa da circa 20 anni di management e comunicazione nel settore medico e odontoiatrico.

Ha sempre coltivato la poesia sotto forma di potentissima terapia dell’anima, capace di slegare dai ritmi spigolosi del quotidiano per tornare alla sera, quando il vento s’arruffa e pesca a strascico pensieri e foglie, e si riprende il proprio tempo.

Nel 2021 ha pubblicato la raccolta poetica Occhi salvia e zafferano con Bertoni Editore.


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                                                           3 maggio 2022

1 commento:

  1. Gentilissimo Pino, grazie di cuore per avermi inserito nel tuo prezioso progetto di ricerca, e per averlo fatto con professionalità. Grazie per la tua perspicace nota introduttiva e esplicativa alla mia poetica, in cui mi sono perfettamente ritrovata. Ho letto le altre note riferite agli altri valenti poeti e sempre mi stupisce come tu riesca a trovare, per ognuno, "parole nuove", che ne evidenzino le caratteristiche e le peculiarità. Certo l'esperienza non ti manca, e hai usato proficuamente il tuo tempo per imparare e, con quelle basi, creare uno stile tutto tuo. Ben addossate al presente, e dolenti, sono le tue note introduttive al XXXIV volume, ma ricche, in chiusa, di una speranza, doverosa, volutamente incrollabile: non si può fare a meno di crederci, se vogliamo avere la forza, ogni giorno, di riaprire gli occhi e mettere un passo davanti all'altro. Anche imponendoselo, come atto dovuto. Io, la mia speranza, la coltivo in famiglia, nella fortuna (o fortunata scelta) di avere un marito che mi rispetta e mi ama, e di avere figli che ci sono vicini. Siamo vicini gli uni con gli altri, pur nella nostra imprescindibile imperfezione. Quindi, si può. Quindi, ci si riesce. Avanzando con l'età e con il bagaglio, sempre più incisivo, di una salute carente, la mia famiglia, da sempre fulcro e meta del mio operare, mi diventa rifugio, e coperta. Sono felice quando riesco ad essere utile a loro. Forse è un sentimento molto femminile, ma attraverso questo riesco a comprendere il tuo generoso impegno verso noi poeti che si concretizza in questi volumi curati da te. Spero che ti diano la soddisfazione che meriti.
    Carla Sautto Malfatto

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