Introduzione
Esiste
ancora un posto dove gente indisciplinata ed egoista versa, anzi sparpaglia, la
spazzatura ad un angolo di strada, senza peraltro operare nessuna selezione ma
ammucchiando insieme rifiuti organici, carte, contenitori e lattine varie.
Esiste ancora, in qualche punto della mia zona rurale, come certamente in altre
parti del nostro amato/odiato meridione, la possibilità di cogliere nell’aria
la fragranza del pane che sta per uscire dai vecchi forni a legna di qualche
contadino che, nonostante tutto, continua imperterrito la sua attività/passione
di fornaio artigianale: la domenica mattina è tutto un tripudio di aromi, di
fragranze, di profumi provenienti dalle masserie rurali; lì, lontano dai rioni
di cemento della città metropolitana, è tutto un mondo che ancora resiste
all’opprimente frenesia dell’usoegetta,
dell’accaparramento a tutti i costi di qualsiasi bene e di qualsiasi comodità,
più o meno utile.
E da
qualche parte ancora una donna subisce e perisce, sottomessa e imbrigliata in
abitudini secolari, che la vogliono inferiore e limitata, priva di ogni
diritto. Eppure, abbiamo eroine e scienziate, ricercatrici e astronaute, donne
che con la loro intraprendenza e la loro determinazione, hanno cambiato il
mondo e dissolto ogni pregiudizio su di loro.
Ci sono
posti e tempi ancora gretti, oscuri, in cui qualcuno si prodiga per denigrare,
umiliare, torturare, offendere e persino uccidere un altro, un suo simile, un
suo parente, la moglie, l’amante, il padre, la madre, gli zii; c’è ancora chi
tradisce, da qualche parte, chi trama nell’ombra per sopraffare l’altro, per
prendersi meriti non suoi; e c’è ancora chi calpesta la libertà e i diritti
degli altri, chi pretende il pizzo da onesti commercianti, chi rapina, chi sa
manipolare e plagiare il suo simile per trarne vantaggio personale. C’è chi
istiga, chi inculca sensi di colpa per ottenerne buona possibilità di gestione
personale. Esiste sempre, da qualche parte, qualcuno che ti impone subdolamente
modi di agire e linee di pensiero convincendoti che è giusto e sacrosanto, per
il bene di tutti. Esiste l’inganno, l’ipocrisia, la malafede.
Ma esiste
anche, da qualche parte, ancora la bontà d’animo, il prodigarsi per gli altri,
l’aiutarsi a vicenda, l’essere consapevoli dei propri talenti, l’essere
coerenti e schietti nei confronti di tutti, il saper condividere le ricchezze
della natura e rispettarle.
L’augurio
è che tutti possano acquisire consapevolezza della propria umanità e del grande
valore della vita, aborrendo ogni crimine e ribellandosi ad ogni azione che
possa provocare conflitti umani e sociali.
Parole
grosse, per una cultura e per una considerazione dell’essere umano che ancora
non c’è, e che forse non c’è mai stata e mai ci sarà, dacché l’uomo è animale
sociale ma che tende a prevalere sempre sugli altri, per timore che proprio
l’altro possa a sua volta sopraffarlo, per invidia, per gelosia, per antipatia,
per ignoranza. È dall’assassinio di Abele che l’uomo è in guerra. E non c’è
giustificazione che tenga.
Parole
grosse, certamente! Dovrà sorgere un’umanità migliore, più consapevole della
propria preziosa esistenza su questo pianeta, più incline alla convivenza e
alla condivisione dei valori e dei beni. Parole grosse, sì, forse retoriche e
inutili, disperate.
Tentiamo
di ricucire qualcosa, qualcosa che tenga insieme il tutto, dalla vita alla
morte, dalla fragranza del pane appena sfornato al gesto di abbandonare su un
marciapiede un cumulo di spazzatura alla rinfusa, dalle lacrime di gioia che ti
dona un figlio appena nato, al pianto di rabbia nel vedere una città bombardata
e gente assolutamente innocente, novelli Abele, soccombere ai prepotenti.
La poesia
può essere questo legame, questo canto sublime e accorato che lega ogni cosa e
che mostra la nostra vera umanità.
Per
questo, ringrazio ancora tutti i poeti che hanno aderito a questa mia
iniziativa, e in particolare i dieci autori di questo volume. Buona lettura!
Giuseppe
Vetromile
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PATRIZIA BAGLIONE
C’è un’inquietudine
romantica nei versi di Patrizia Baglione, giovane poetessa del frusinate ma già
determinata nel voler farsi apprezzare grazie ad un bagaglio culturale e poetico
di indubbia consistenza. E questa inquietudine, o meglio insofferenza, emerge dalla
consapevolezza dell’asperità del mondo circostante, e finanche dei sentimenti,
quando il sogno di una realtà illuminata e avvolta dal sole dell’amore e della schiettezza
nelle relazioni umane, si scontra con il mondo dei pregiudizi e degli
stereotipi. La sua determinazione di volare
in questi sogni, nonostante le burrasche
della quotidianità, prefigura il suo obiettivo personale, e poetico, costruito
con un procedere laconico ma intenso dei versi.
Ho
paura del bacio
Ho paura del bacio
non del cielo
o del fuoco. Amore
non te la prendere
se sono un uccello
capace di volare, nonostante
la burrasca.
***
Croce
Il filo che mi lega a te
è lo stesso che inchioda i morti
alla croce.
Dalla carne, oramai lacerata
fuoriesce
la polvere rossa dei papaveri.
Sono un cencio di ossa
sopra
questa trave di legno
in un giorno qualunque
di un mese qualunque.
***
A
che serve un cielo di stelle
A che serve un cielo di stelle
quando, già nel tuo ventre
riesco a vedere l’alba
e udire
con note angeliche
le voci delle fate. Dimmi
cosa me ne faccio delle stelle
se poi
vivo solo di te
e appena te ne vai
torna il buio nella stanza.
***
Notte
di luna
Veglierò in silenzio sul tuo respiro
mai disturberò
quel ritmo frenetico.
Nella lunga notte dei desideri
ho cercato di rapire
il tuo odore.
Come un libro, mi sono
aperta a te. Hai sfogliato
per bene la mia anima.
Poi
ho catturato le tue membra
e le ho mostrate
al mondo dell’impossibile.
***
Il
sasso è più vivo di me
Il sasso è più vivo di me:
calmo e sereno
passa la vita senza porsi
troppe domande
apprezza, quello che viene
prova pazienza e fiducia nel giorno.
Io me ne sto
qui ad aspettare
un amore di cui, non si sa l'esistenza.
Non provo gioia, piuttosto rancore
del tempo passato
così malamente - come una spina
dura e costante
capace di solcare
tutto il terreno.
Della milanese Emilia Barbato, di origini napoletane, piace l’immediatezza del dire poetico, essenziale nei brevi versi che, tra l’altro, custodiscono una forte allegoria nei confronti della vita, anzi di una vita da ricostruire, un’esistenza che rinasca dai semi e dalla terra ben preparata e nutrita. Ricorre spesso, infatti, a metafore che si rifanno alle necessarie potature ai fini di rendere i virgulti più sani e più produttivi, in una terra prevalentemente smossa e disordinata, se non addirittura avvelenata. Questo desiderio di spoliazione da ogni surplus inutile, di mettere a nudo le verità e di sfrondare, potare, gli animi affinché risorgano più schietti e genuini, è trasposta dunque nella quotidianità delle azioni e delle relazioni, ove è proprio con la poesia che è possibile una traccia, un’indicazione, una speranza, un rinnovamento.
Capogatto
1
Separo
tutto,
asporto
il ricordo
dell’ultima
propaggine
delle
tue mani nel mio corpo
moltiplicato
da ulteriore nudità
e
qualche menzogna,
dissipo
finanche la voglia e l’ipotesi
di
un uomo che mi risolva.
2
Sotto
le cattive stagioni
mi
incurvo, mi interro
–
ho un taglio – protendo
alla
fine dei sarmenti stanchi,
tuttavia,
nella terra
modulo
un vagito – attecchisco -
fuori
di me schiudo
gemme,
cresco una figlia.
Qui
– dove separano –
stringo
dipendenze
e
autonomia, morte e vita:
l’archè.
3
Potare
è un movimento sapiente,
la
cruenza necessaria dell’agronomo
sui
capi a legno perché
i
tralci gemmino,
recidere
è il tono ubbidiente
della
mia voce
all’impeto
della mente
affinché
il cuore, tremando, taccia.
4
Vedi,
così come il pampino usa
i
colori strepitando tutto
il
suo bisogno di nutrizione
e
la misura esatta d’acqua per i frutti,
io
trattengo l’eco di una parola,
l’amplifico
nella voce delle cose,
allontanandomi
quel poco dalla perfezione,
per
non turbarla, per coltivare la felicità.
5
La
strada del germoglio tra i nodi
è
affollata di indugi,
di
fratture, soccorrono
le
gemme di controcchio,
premi
qui,
sulla
bocca, forte sul petto,
conduci
nella mano questo tremito di speranza,
nel
calore le mie temibili muffe.
6
Disponi
le mie gemme dormienti
nel
verso giusto,
dipana
il verde dei germogli
sul
tuo soggetto vigoroso, rispecchiando
affinità
e epoca dei bocci,
segno
teneramente la tua corteccia
con
un’impronta trasversale e una longitudinale
traccio
la sacralità in cui mi innesto.
(da
Capogatto, Puntoacapo Editrice, 2016)
***
Minutissimi
relitti alla deriva,
le
teste canute nel sonno
inclinate
su un lato,
naufragano
qualche parola.
Si
distingue una litania,
resta
sospesa nella sua imperfezione
eppure
propaga il senso e il suono che tuona
nell’aria
immobile della stanza.
–
Gesù Giuseppe e Maria
vi
dono il cuore e l’anima mia –
(da
Il rigo tra i rami del sambuco,
Pietre Vive Editore, 2018)
***
L’uomo
che veniva dal mare,
una
coppa Oribe per Orsola
“nuda,
bianca, imposseduta”
nei
collage di Bodini, la fame
di
poesia, pomo, ponte sia
da
te a me lingua, parola,
bocca,
aspirazione roca
di
una bacca intradotta.
(da
Nature Reversibili, LietoColle
Edizioni, 2019)
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GIOVANNI BRACCO
Di Giovanni Bracco, giornalista e musicista salernitano di Polla, residente a Roma, è da apprezzare la morbidezza di un afflato poetico lirico e ben modulato e strutturato attraverso un percorso sostanzioso e intenso di emozioni e stati d’animo. In questo breve poemetto, che fa parte di una raccolta pubblicata da La Vita Felice, nota editrice milanese, la pacatezza del suo dire si accompagna verosimilmente ad un grande e controllato trasporto emotivo, quasi erotico, in giusta misura come delicata piccantezza degli enunciati. L’evidenza di una passione forte che si dipana nei gesti calmi di una quotidianità di piccole cose, come il fumare una sigaretta, si manifesta nell’intimo desiderio di interiorizzare, quasi di indossare, gesti e corpo dell’amata, in una mutua e sublime congiunzione di sensi.
Otto poesie d’amore
I
Le
grandi mani calme.
Un’altra
sigaretta
fuma
tra le tue dita
lunghe
come il volo di un airone.
Mani
che indosserei come un maglione
caldo
del tuo sangue e del tuo odore.
Lontani
dall’inverno bianco e azzurro,
una
stanza segreta
e
mani grandi calme lunghe dita.
II
Se
il tuo viso apparisse per incanto
anche
in una notte così calma,
potrei
chiederti con gli occhi soltanto
di
respirarmi addosso, respirarmi
dentro
la bocca e nel mio respiro
stesso,
per trattenerti ancora, come
il
pensiero purissimo dell’aria.
III
Tremo
all’idea della tua presenza.
Vertigine
l’assenza.
IV
Di
notte aspetto
come
albero a Levante
i
tuoi occhi.
V
Nel
mio pensiero sei la pura bocca.
Il
bacio che si ferma sopra il filo
del
tuo respiro è l’idea di un bacio
accostato
all’idea della tua bocca.
Ma
il fremito sottile della foglia
arresa
a un soffio, calda in trasparenza:
così,
dischiusa e assorta,
se
bacio il tuo respiro, più vicino.
VI
Febbraio
Che
notte strana, calda. Lo scirocco
ha
imbrattato di lacrime sabbiose
le
aiuole miserabili, il cortile
del
condominio e tutte le automobili.
Come
a una gogna appendo le passioni
all’arancio
svogliato dei lampioni
perché
tu possa riderne
e
io farti tornare
una
donna tra tante.
VII
Di
notte nella stanza luci rosse
di
radiosveglia tracciano
ai
pensieri la pista di atterraggio:
ma
io li ricaccio in volo
nella
profondità folle dei sogni.
Dovrei
farlo stanotte che mi manchi
dentro
la pancia, nel mio nero cuore.
Ma
è un grumo nero il cuore
e
tu farfalla vento verde neve.
VIII
Aprile
Ora
aspetto che passi per suo conto
questa
notte, mentre ai pini di Roma,
impassibili
come il Vittoriano,
a
due passi da una porta a me chiusa,
ho
spiegato che tu sei il mio dolore.
Ho
incrociato un turista solitario
che
prendeva la sua felicità
da
una birra, seduto sulla strada
dei
Fori, come io feci sulla spiaggia
di
Colonia sul Rio de la Plata.
Forse
il varco è dissolversi, stranieri,
come
nel temporaneo oblio di un viaggio.
(da
Le grandi mani calme, La Vita Felice, Milano, 2015)
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FELICIA BUONOMO
Felicia Buonomo, da attenta osservatrice dell’odierna società, ne trascrive con la sua esperienza giornalistica di prim’ordine, supportata però da una grande vena poetica, i contrasti e le ambiguità, sovente celate da mielosi compromessi e ipocrite omologazioni di comportamenti. La denuncia è velata ma evidente, traspare in filigrana dai versi nervosi e impietosi come lo sono i fatti narrati. Un corpo poetico che reclama giustizia e comprensione, unione e amore, in un consesso civile dilaniato e irriverente, sovente egoista. E la poesia è questo canto contro ogni negatività che possa disarmonizzare l’umanità, quando si è consapevoli di avere in sé i geni della violenza.
Sangue corrotto
In principio fu il sangue corrotto
dall’alcol di A. – mio fratello. Siate
fecondi e moltiplicatevi, la
maledizione. Mamma e la paura:
«Ho in me i geni della violenza».
Si pensa come rea mai confessa.
***
Merletto
Babbo c’è un assassino,
non lo fare bussare
Babbo
c’è un indovino,
non lo fare
parlare […]
E c’è un forte rumore di niente.
Francesco
De Gregori
«Aspetto papà», ha detto. Aveva
quattro anni, due di chemioterapia.
Papà, due di immotivati sensi di colpa.
Era mia sorella. Se n’è andata tra le lenzuola
con il merletto in pizzo di mamma, che ha scelto
la morte per aprire il corredo avuto in dote.
«Non è stata la malattia a portarsela via»,
dice papà. «Non ho saputo proteggerla».
Papà si crede Dio, che di vita e morte decide.
***
Oppressore
L’oppressore si diletta.
Ha battuto la mia bocca.
Non ho un compagno nella vita.
Per chi posso essere dolce?
Nadia Anjuman
Lo dico al passato?
O al domani
sempre uguale alla mia pena,
che l’entusiasmo facile
è un tentativo fallito,
quando l’oppressore si diletta.
Vivo alla periferia dei pensieri altrui.
Lui dice che faccio la vittima.
La dottoressa dice che lo sono.
Ho dimenticato la parola io.
***
Ostia
Non è leggerezza di fiore questa condanna.
Come un masticare di ostia che chiede
redenzione.
Si scioglie in fretta, taglia il tempo
necessario
a passare in rassegna l’elenco dei peccati
che mi getti addosso. Eppure sarei dovuta
partire,
lanciarmi vuota nella libertà che pesa. Non
aspettare
una benedizione, un segno di croce che allarghi
alla vita. Eppure rimango, mi punisco, mi
rinnego.
Potrei silenziarmi, ma canto un urlo. Tu non senti.
***
Offerta
Degli anni in cui si disegna
la primavera dell’esistenza
rimane ancora
la mia mano cucchiaio:
offerta
senza ricevuta.
***
Carcassa
Come una iena apro lo spazio
tra pareti di stomaco vorace.
La carcassa dei miei fallimenti
attende di essere divorata.
Famelica ingurgito i resti.
Sopravvivo di carogne, non rido.
(da Sangue corrotto, Interno Libri, 2021)
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LAURA CINGOLANI
Andare per conto di
Vado per conto di
Nere cascate di stelle
Crescono immense ai bordi della strada
Le speranze sempre quelle
Di preservarsi intatti
Di non cambiare nulla
Non disturbare il destino
Lasciandolo dormire
Però questo piano ci cade spesso
addosso
E noi lo salutiamo
Diciamo - Benvenuto
Vuoi un caffè
Aspettiamo che si sieda
Per sederci insieme a lui
Ci spiegherà le sue ragioni
Tiene molto a noi
Ha sempre saputo come prenderci
Dove portarci
Parliamo del più e del meno
Senza tirare le somme
Crediamo sia meglio così
Ne percepisco il senso
Semplicemente chiudendo gli occhi
E ricordando la strada
Ripercorrendola altrove
Riassaporandone i frutti
Andando di nuovo per conto di
Terre a cui sono promessa
Mondi a cui sono connessa
Appoggiando le palme dei piedi una dopo
l’altra
Osservando le cose normali
Producendo azioni senza scopo
Sacrificando tutto
No non posso – disse
Cercando di tornare al passato
Poi si riprese
Bagnò il suo viso con acqua fredda
Sapeva che era arrivato il momento
Allora tornò di un poco avanti
Si voltò
Ci guardò addosso sparandoci con gli
occhi la sua paura
Mentre nel frattempo si trasformava
Sciogliendosi in lacrime
Scendeva come pioggia
Credeva non potesse mai accadere
Poi con uno scatto si ricompose
Guardò di qua e di là
Accennò un breve sorriso
Posso – disse
Adesso posso
I suoi occhi si aprirono fino allo
stremo
Ci incamminammo insieme
Per giorni e giorni
Senza badare allo sforzo
Senza dormire la notte
Senza pensare al passato
E adesso che è quasi giorno
Andiamo incontro al mattino
Doniamo felicità a chi la vuole
Andiamo ogni giorno lontano
Non abbiamo bisogno di niente
Perdiamo soltanto le cose
Godiamo di foglie che luccicano
E nel frattempo andiamo
Andiamo per conto di
Quello che passa attraverso
Quello che ci cade addosso
Tutto quello che accade
In tutti i momenti del mondo
In tutti i pensieri del tempo
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GABRIELLA GRASSO
È profondo
il sentimento per la terra e il senso di appartenenza ad essa, in Gabriella
Grasso, poetessa siciliana che si è fatta apprezzare dal mondo letterario
nazionale per i notevoli premi ottenuti in concorsi letterari importanti come
il Lorenzo Montano. Questa sua predilezione nei confronti della natura e in
particolare per il suo universo siciliano così ricco di colori, calori e
fragranze, si delinea lungo il tessuto poetico dei suoi versi, sempre aperti e
luminosi, caldi di una passione quasi atavica, che fa germogliare nei cuori
semi di amore e di speranza. Sono versi che cantano la gioia di vivere
abbracciati idealmente alla terra, desiderandone la presenza coinvolgente fino
ad occuparne, con le proprie cose, ogni anfratto, ogni tana. Il richiamo alla genuinità
di una vita scevra da ogni sorta di inutile sovrastruttura (ti aspetto qui…) è evidente e la poesia
di Gabriella Grasso può essere anche interpretata come una complessa e grande
metafora dell’esistenza, da trascorre qui, su una terra schietta e amica, vera
culla di vera umanità.
Ti aspetto qui
Ti aspetto qui
sono un po’ stanca io
non vado oltre
È stato un viaggio
questo radente al muro
di sciara a secco
roveti innocui
lucertole beate
nella loro indifferenza secolare
Tu vai
a conquistare il mondo
ad affrontare il drago
che senti mugugnare
nell’antro del vulcano
e vincere quella medaglia antica
che spetta a chi ha coraggio
a chi non teme pioggia né fatica
Io resto e qui mi troverai
se vuoi tornare
e ti offrirò dal mio grembiule
le more che ho raccolto lungo il muro
nelle ore silenziose del mio stare
(da Quale
confine, edizioni Kolibris, 2019)
***
Zolla tra zolle
Vorrei una tenda
in ogni angolo buono che mi ha dato
fiato
La pianterei puntando al cuore
di quella terra che mi è stata nido
e ci verrei
ci tornerei per ritrovare
sentore della vita
Mi scaverei una tana in ogni luogo
dove ho provato pace
per ritornarci col pensiero
e risucchiare
la linfa buona delle sue radici
Sparpaglierei i miei oggetti in ogni
buco
in cui vorrei lasciare impronte e
giochi
inutili trastulli
tracce opache
incomprensibili agli altri
evaporate
dagli alvei della storia
Mi illuderei d’avere avuto casa
nelle case degli altri
e dentro i covi degli animali amici
Sì, d’essere rimasta
foglia tra foglie
zolla tra le zolle
di una terra materna
illimitata
(da Il
Generale Inverno, Il Convivio ed., 2021)
***
Gli adolescenti
Nelle ore in cui il contorno
delle cose si sfaceva
lasciate le biglie e le bici
seduti appartati sul bordo affilato
di una panchina di ferro
nervosi e con mani casuali
sfasciavamo le rose
senza mai alzare il viso
e guardarci negli occhi
quei petali sparsi
tra i laterizi scartati
e le basole nere
ci indicavano a sera la strada
per ritornare a casa
(da Sciott, inedito)
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SILVIA ROSA
C’è un viaggio da fare, ma è piuttosto un percorso, una linea progressiva
di movimento appena appena tradita da una blanda (o solidissima?) metafora
della vita. È ciò che traspare dai versi di Silvia Rosa, validissima e nota
poetessa torinese che si prodiga per la diffusione della cultura letteraria
attraverso svariate pubblicazioni e presenze su siti internet di settore molto
qualificati. E sono dunque versi che si susseguono con la giusta misura di
enigmi e di certezze, anche minime, come lo sciabolare
dei fari antinebbia e gli improvvisi abbagli delle luci di fuori. C’è in tutto
ciò un senso di insicurezza, che richiama la precarietà dell’esistenza, la redenzione del tunnel, che ci sia cioè
finalmente salvezza all’uscita. È questo sentirsi sospesi, tra una notte sicura sulla destra e il chiaro del nuovo giorno che si annuncia subito
dopo, che caratterizza la poetica di Silvia Rosa nei brani che qui propone; una
struttura poetica che riflette sul senso di appartenenza a questa realtà, per
quel poco che possediamo e su cui fare affidamento: l’autenticità d’essere,
cioè quel poco di reale e consolidato che
ci resta.
Dentro una
pozza di cielo
i pendagli
degli alberi tremolano
in questo
giorno che un calendario
ha nominato
Primavera,
e risucchia
in uno slargo acceso
tutta la
terra che ci resta
Dove siamo,
mentre la notte
entra sicura
sulla destra e vira
al chiaro che
svanisce? Dove vanno
le cose che
si illuminano,
quando
lasciamo un punto piccolo
di fuga per
non dimenticare
di fiorire
lungo la strada
del ritorno?
*
All’estremità
della notte le occhiaie
ci
confortano, piccole chiazze di lune
piene sul
volto. La redenzione del tunnel,
con i suoi
boati corvini e le falene-bussole,
è una strada
d’alluminio che accoglie
i nostri
fantasmi, a 150 km orari.
Il roseto di
abbagli ed errori resta fuori
da questa
griglia di Hermann: le fucilate
degli
antinebbia e i rimpianti sono espunti
da un elenco
di cifre binarie, o bianco o nero.
Manca
profondità a questo andare,
uno sguardo
d’insieme, il talento
di
sopravvivere alle lesioni del buio
*
Non è chiaro
se dopo nebbie fossili
e giorni di
Nigredo, se dopo tutti
gli abbandoni
in cui ci siamo persi,
arriveremo
alla zolla dell’aurora
o al margine
radioso d’un suburbio
con blocchi
di edifici in successione,
una schiera
di giganti cenerini
che roteano
l’occhio dei balconi
verso l’antenna
5G puntata a Est
L’impasto di
paure nello stomaco
e gli sguardi
strabici, un’infinita nausea
a orientare i
nostri passi ondivaghi:
sapessimo
trovare una stazione
di servizio,
almeno, dove mettere
a sedere ciò
che resta del presente,
dargli un
alibi per colazione,
mentre
cerchiamo di inviare
a chi è
rimasto indietro le coordinate
esatte della
nostra posizione
(siamo a 74
centimetri circa
da qualsiasi
morte capiti in sorte)
*
Perforando la
fibra sintetica
che oscura
l’orbita del sole
scendiamo a
precipizio lungo
il rivo
amniotico, con la brina
degli inizi
addosso e le palpebre
incollate,
portiamo l’impronta artica
di monadi
inscritta sulla pelle,
il freddo
come una condanna
così veniamo
al mondo
˗ o scompariamo? ˗
soggetti
all’azzardo degli eventi
fra scorie di
arenile e uranio
improvvise
fluorescenze, scheletri
antropoidi e
Intelligenze Artificiali,
assomigliamo
alle falene Saturnia
e Cobra che
infuriano le ali, confuse,
quando
scambiano la luce al neon
per un
destino luminoso d’astri
(da Tutta la terra che ci resta, Vydia
Editore, 2022)
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CARLA SAUTTO MALFATTO
Attenta osservatrice della realtà esterna e dei
mondi segreti dell’inconscio, la ferrarese Carla Sautto Malfatto, poetessa e
artista di grande valore, vincitrice di numerosi e importanti premi letterari,
sa entrare con la sua arte, il suo sguardo e il suo cuore, nel panorama che la
circonda e l’avvolge, sia che si tratti di immagini naturali, come l’abete vecchio, che suscita in lei
sentimenti di meraviglia e di compassione, sia che si tratti dei rapporti
familiari. In tutto questo, il suo impianto poetico si fonda essenzialmente sul
mistero dell’esistenza, sull’imponderabilità delle vicende umane e del destino:
la sensibilità artistica dell’autrice rafforza questa amara sensazione,
invitando a traguardare oltre la sottile filigrana della futilità delle cose e
della natura, rispetto alla consistenza e all’autenticità dell’uomo.
Gente di nebbia
Dimmi cosa vedi
quando
penetri le nostre nebbie
che
si affollano
corvi
al pasto
di
luci, strade e umori
e
a banchi si affastellano
in
densi muri
d’angoscia
e d’abbandono
o
ad improvvisi veli
spettri
ad altezza di naso.
Noi
siamo lì
insondabili
gente
di nebbia
dalle
bocche a taglio
ermetici
ricci indaffarati
sornioni
e maledetti
come
i gatti neri.
(da
Troppe nebbie, Edizioni Il Saggio,
2019)
***
L’abete vecchio
L’ho
visto tante volte piegarsi, quel pennone
alle
bufere da temere di trovarmelo in casa
spuntato
e rinsecchito come chi non cede
nemmeno
davanti all’evidenza di braccia scrostate
da
non essere più riparo per i nidi,
figuriamoci
utile per se stessi.
Se
ne ciondolava così, i rami più bassi sulla strada
tagliati
uno e due e tre – pericolo per i passanti –
e
sempre più nudo, tranne che di protervia
il
re dei boschi montani, ad un tiro di schioppo dal Po,
a
reggere la neve con conati di schiocchi.
Ma
il suo dovere lo faceva, vecchio alpino
ultimo
avamposto ad un sole umido che schianta
anche
i pensieri in apnea della bassa,
e
poi così un giorno a ritrovarselo
brunito
d’aghi al tramonto – ma non per quella ragione –
e
prendere accordi per abbatterlo.
Se
avesse potuto si sarebbe portato via con le radici
per
andare a morire altrove e invece urlava
nella
mia testa mentre lo sezionavano, a falde,
a
tocchi, a tonfi, e rabbrividiva al solletico della sega.
L’ho
già bruciato, secco com’era, nel camino
ma
con certi sibili, botti, sputi di linfa e lanci
incandescenti
– e la pelle rugosa a trasfigurare
in
interni di brace – come un’anima dannata,
e
ho giurato di non piantarne più, al suo posto,
per
rispetto e dispiacere, e ne tengo
un
legno, per ricordo, che si unge circolare al cuore,
ma
dubito sia balsamo del suo perdono.
(dall’Antologia
del Premio Voci Verdi, Editrice
Artistica Bassano, 2018)
***
Tenerezza
La
stretta leggera e fugace
di
mio figlio, stamattina
sulla
mia curva dell’omero:
– Come va? –
al
profumo di doccia e intenzione
mentre
mi era alle spalle
lo
so
che
mi deve bastare al suo riserbo
esagerato
– e ogni tanto buttargli
le
braccia al collo dicendogli
che
ne ha bisogno –
è
un buon risveglio
lo
spiraglio di una soluzione
per
quel suo destreggiarsi su un’asse d’equilibrio
illudendosi
d’andare avanti così,
all’infinito.
Se
mi desse la sua pena, saprei
come
sbrogliarla, negli anni canuti d’esperienza
appunti
accumulati di cui i figli non si servono,
mi
chiedo
se
non farei più danno
e
possa bastare lasciargli stringere appena
la
mia spalla vecchia e ardita
che
ancora c’è – hai presente, lo scoglio
appena
affiorato e incrostato nella tempesta? –
e
alitare per rinnovare lo stoppino di un faro
quasi
esaurito
calmo
solo in apparenza
nell’attesa
che trovi da solo il porto
e
mi lasci da lontano
guardarlo
prender riva, salvo.
(inedita)
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ANTONELLA SICA
È forte e perentoria, la poetica di Antonella
Sica in questi versi tratti da L’ira
notturna di Penelope. La poetessa genovese, peraltro impegnatissima anche
in campo cinematografico e ideatrice e curatrice di diversi festival e rassegne
artistiche e letterarie, non lascia dunque spazi inutili nel suo dire deciso e
schietto, e i versi sono modulati su questo suo accorato dichiarare tensioni e
dissidi, sgretolamenti e dissoluzioni,
in un mondo che appare calpestato e offeso, un mondo di cui fa parte anche
l’umanità con la sua carne e persino il suo spirito corrotti dal tempo e dalle
ignominie che l’uomo stesso provoca e ritorce contro la natura stessa. Ma
proprio in questa realtà, dove ogni cosa sembra inquinarsi e guastarsi, resiste
la metafora di Penelope, che imperterrita continua a tessere la sua esistenza,
nonostante ogni ferita e ogni avversità, ma dando uno sguardo di sottecchi (nella coda dell’occhio) ad un possibile
futuro di riscatto.
Dissoluzione n. 1
Tagli sui confini sordi
del corpo
gravità
spezzata in varchi
per l'incanto sonoro del merlo
mangiatore di vermi
del tordo bottaccio, del fringuello.
Scivola il sangue nelle grondaie
pettirosso dissolto nella pioggia d'aprile
si guasta la pelle all'acqua che cade
battono il tempo le ossa lavate
liberate dal cuore al biancore dell'alba.
***
Dissoluzione n. 2
Sola splendo d’ogni
ferita il sole
che spacca i semi nella culla del sangue;
radici tenaci di gramigna corrono
sotto la pelle, si spezzano alla luce
i bulbi di ranuncoli azzurri
nel cavo degli occhi, sbocciano
ai piedi papaveri dai morbidi steli
coi petali curvi, la gialla calendula
ricama le mani lenite e il cuore è terra
che batte alla pioggia che cade.
Non essere. Non essere più
se non qualcosa che si lascia essere
ciò che è.
***
Si è complici di un sintomo
un comune dolore d'essere
periferia abbandonata, arsa
da cemento e sterpaglia.
Amore è solo un segno
posto troppo in alto
per le mani.
*
Ho
slacciato i passi al tempo
estinte
le radici fino al sangue
ora
dondolo le gambe sul vuoto
fra
le grida limpide del volo
un
vociare infantile sale, c'è aria
di
mare che solleva le gonne
ridono
le donne in crisalidi di seta
in
questo angolo terso della vita
svestita
d'ogni sguardo mi sposto
fuori
campo, nella coda dell'occhio
(Da L’ira notturna di Penelope, Prospero Editore, 2022)
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SIMONA VOLPE
La consapevolezza del tempo che scorrendo
ineluttabile vanifica le impronte di vita che si delineano momentaneamente sul
tessuto della propria anima, della propria esperienza, e un’attesa incerta, più
spasmodica dell’attesa stessa: sono queste le caratteristiche fortemente
simboliche che conformano la struttura poetica dei versi di Simona Volpe,
validissima autrice di Martina Franca ma originaria di Molfetta. Sono versi che
vibrano di malinconia, di estraneazione, di abbandono, ma nello stesso tempo vi
è traccia di un forte sentimento nei confronti della natura, al cui ritmo
vitale aderisce sincronico l’anima e il cuore: “E divento battito, / chiaroscuro di notti / interminabili e assetate /
che indugiano / al pontile fino all’alba”. Un pontile che è in effetti il
punto d’osservazione avanzato dell’autrice, che si protende metaforicamente
sulla pericolosità e sull’incertezza dell’esistenza, attendendosi albe colme di
speranza.
Alba sul pontile
L’incertezza
dell’attesa
nell’attesa,
la delirante
speranza
riposta
nell’onda breve
che immortale
si sussegue.
Ridursi a
(re)stare,
professando
il divino
ubriaco
presagio
che si fa
pelle con me.
Senza più
peso specifico,
forma,
contorni,
divengo anima
nebulizzata
dissolta
nell’afa
di un agosto
comprato,
così mi
perdo
tra le doghe
verniciate
gonfie di
stagioni.
E divento
battito,
chiaroscuro
di notti
interminabili
e assetate
che indugiano
al pontile
fino all’alba.
***
Giro intorno
all’isolato
E poi
succede
che tenti
solo un abbandono.
Parti senza
un dove
e sai che in
quell’andare
vorresti
posare i pensieri
in un
giardino pensile
vista mare
tra i
rampicanti che scivolano
lungo le
facciate di graffiato
di una
qualche appartenenza.
Lasci loro
acqua e cibo
gli insegni
a prepararsi
la cena
a respirare
da soli.
Sollevandoti
dal Dovere
ti sorprendi
a rinascere
dalla roccia
carsica
rotta dal
seme
e torni ad
appartenerti
in modo
primordiale.
Mastichi con
denti nuovi
l’aria
spessa
che profuma
di scelte..
scaricando
l’orologio
contando solo
i passi.
***
Sogno
La bellezza
infinita
dell’abitarti
dentro;
sei quel
senso
ristretto e
profumato
di un sorso
di caffè
che risveglia
dai torpori
di un sonno
leggero
sublimando il
soffitto.
Così
mi slego dal
tuo Io
e stringo
forte
questo lembo
di mattino
che mi
tremola nel palmo.
Ti
accarezzo
ma non sei
velluto..
piuttosto
agrifoglio
pungente di rubino,
mi ammacchi
il respiro
scivolando
dentro un
abbraccio fermo
che mi chiude
a chiave il cuore,
mi dona un
altro sogno
e se ne va.
(da Occhi salvia e zafferano, Bertoni
Editore, 2021)
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Ogni
cosa ripiglia il suo grigiore e si dispone aderente al limbo
s’incastra
nel reticolato dello spazio fino al confine
dove
l’ombra non c’è
perché
è già stata diluita al di qua
mescolata
alle divagazioni di luce a seconda
del
nostro umore
Che
altro siamo mia cara
se
non infingimenti e volti desolati
appiattiti
e sbiancati dal canovaccio del giorno idem
che
altro
se
non abitudine e amen e a tutto-non-si-può-obbedire
Così
ogni cosa ha l’ombra del diavolo dietro o sotto
nascosta
dall’apparenza
come
una pietra innocente che celi il verme
o
come una mano che si prepari ad uno schiaffo
sconvolgente
ed inatteso
Stabilisci
tu mia cara dove proseguire in questo panorama
dove
tutto è già predisposto fino alla fine
e
mai un grido o un boato di cielo
s’alzerà
sulla rigida planimetria
dell’assodato
nostro cosissìa
(dalla
sezione “Planimetria del crepuscolo inverso” in Percorsi alternativi, Marcus Edizioni, 2013)
Giuseppe Vetromile
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NOTE SUGLI AUTORI
Patrizia Baglione
Patrizia
Baglione è nata ad Arpino, in provincia di Frosinone, nel 1994. Ha composto la
sua prima poesia all'età di tredici anni. Diplomata in “Tecnico della Grafica
Pubblicitaria” nel 2013. La mia voce,
edito da Quid Edizioni nel 2019, è il suo libro di esordio: una raccolta di
poesie, scritte durante la sua adolescenza. Nel febbraio del 2020 pubblica con
la Casa Editice Kimerik Malinconia delle
nuvole, la sua seconda raccolta di poesie, nella quale non sfugge alle
problematiche sociali, ma anzi le individua, le scova e le disintegra con la
sola forza della parola che tocca, nella regola della coerenza, quasi con un
ago sottile, il punto nevralgico della sensibilità umana. Quest’ultima raccolta
è stata presentata anche sulla nota radio Nazionale “RAI Radio Live”. Ha vinto
il Premio alla Cultura al “KALOS 2020 - Premio Internazionale di Arte e
Letteratura”, a cura del Prof. Massimo Pasqualone. Da quasi tre anni si dedica
anche alla pittura, creando una serie di dipinti in stile moderno denominata
"Collezione di bambole". Ha avuto modo di esporre in diverse
personali e collettive, tra queste la “Venice Art Gallery” di Venezia a cura
del Prof. Giorgio Grasso. Con il dipinto Jole,
ha vinto il Premio Creatività, Palermo Artexpo 2020. Personale della Collezione
nel marzo 2021 all'interno del “Centro Culturale Meridian” a Mosca, in Russia.
Trofeo Leone d'oro per le Arti Visive, Venezia 2021. Giurata del Concorso
artistico letterario "Autori italiani 2021", a cura del giornalista
Fiore Sansalone. È laureanda alla facoltà di Scienze dell'educazione e
arteterapeuta in formazione presso Sipea Onlus, Roma.
Emilia Barbato
Emilia
Barbato è nata a Napoli nel 1971 e risiede a Milano. I suoi testi sono apparsi
in diverse antologie, sulla rivista Il
Segnale, Poezia di Bucarest, Immaginazione delle Edizioni Manni e
sull’Aperiodico ad Apparizione Aleatoria delle Edizioni del Foglio Clandestino.
Geografie di un Orlo (CSA Editrice,
2011) è la sua prima raccolta. Seguono Memoriali
Bianchi (Edizioni Smaher, 2014), Capogatto
(Puntoacapo Editrice, 2016), Il
rigo tra i rami del sambuco (Pietre Vive Editore, 2018), Nature Reversibili (LietoColle, 2019).
Giovanni Bracco
Giovanni
Bracco, nato a Polla (Sa) nel 1961. è giornalista, poeta e scrittore. Laureato
con lode in lettere all'Università di Napoli con la prima tesi assoluta sulla
musica di Nino Rota, diplomato in pianoforte al Conservatorio di Potenza. Vive
a Roma dove è capo della redazione dell’agenzia di stampa “Il Sole 24 Ore
Radiocor.” Con l'editore La Vita Felice ha pubblicato le raccolte di poesie Le grandi mani calme (2015) con
prefazione di Elio Pecora e Il nostro
tempo (2017) con prefazione di Annelisa Alleva. Ancora per La Vita Felice
sono usciti, nel 2019 il libro di poesie Il
mare mi ha deposto dalla croce – Mediterraneo, nel 2020 Sull’orizzonte dei binari in fuga - Carme
famigliare e, nel 2021, Urne. Con Cyberwit.net ha pubblicato Nocturnes (2021) con poesie nelle
versioni in inglese e in italiano. Ha pubblicato poesie sulla rivista Nuovi
Argomenti, sotto la direzione prima di Enzo Siciliano e poi di Dacia Maraini, e
su Poeti e Poesia, diretta da Elio Pecora. Tradotte in inglese, sue poesie sono
state accolte da Blue Moon Literary and Art Review (California) e Taj Mahal
Review (India). Tradotte in spagnolo, sono state pubblicate da Revista
Literaria Alborismos (Venezuela), da Katabasis
(online), Revista Almiar (Madrid) e dalla rivista Zéjel (Siviglia).
Felicia Buonomo
Felicia Buonomo è giornalista e autrice. Inizia la carriera giornalistica nel 2007, occupandosi
principalmente di diritti umani. È giornalista presso Mediaset e fa parte della redazione di Osservatorio Diritti. Alcune sue poesie sono state
pubblicate su riviste e blog letterari in Italia, Stati Uniti
e Francia. Pubblica il saggio Pasolini
profeta (Mucchi Editore, 2011), il libro-reportage I
bambini spaccapietre. L'infanzia negata in Benin (Aut Aut Edizioni,
2020), la raccolta poetica Cara catastrofe (Miraggi Edizioni,
2020) e la raccolta poetica Sangue corrotto (Interno Libri,
2021). Dirige la collana di poesia sociale/civile,
“Récit”, per Aut Aut Edizioni.
Laura Cingolani
Laura
Cingolani, nata ad Ancona, vive a Roma. Si esprime integrando classicismo e
sperimentazione, praticando poesia lineare, sonora, visiva e performativa. Dal
1998 i suoi testi compaiono in varie antologie e riviste. Nel 2019 pubblica la
sua opera prima: Mangio alberi e altre
poesie, Edizioni del Verri, Milano.
Gabriella Grasso
Gabriella
Grasso, nata a Catania nel 1971, vive ad Acireale e insegna lettere. Si è
occupata di linguistica della LIS, Lingua Italiana dei Segni (Zanichelli, 1998,
Del Cerro, 1999), di cui è interprete. Scrive per diversi spazi letterari,
nazionali e internazionali.
La sua
opera prima, Quale confine,
pubblicata nel dicembre 2019 per le Edizioni Kolibris (Ferrara), ha ricevuto un
attestato di merito al Premio Lorenzo Montano 2020 e il premio della critica
nell’edizione 2020 dell’Etnabook. Un suo inedito ha vinto il primo premio al
Sonetto d’argento-Premio Jacopo da Lentini 2020.
Nel
novembre del 2021 è uscito il suo secondo libro di poesie, Il Generale Inverno (ed. Il Convivio, Castiglione di Sicilia).
Suoi testi
sono stati inclusi in antologie e tradotti in inglese (trad. di Gray
Sutherland, di Ana Ilievska, di Chiara De Luca) e in spagnolo (trad. di Emilio
Paz, di Antonio Nazaro). In Secolo Donna
2021 (ed. Macabor, 2021) sono presenti sue poesie e un contributo critico
sulla sua poetica, a cura di Davide Zizza. Alcuni suoi testi, tradotti da Ana
Ilievska, faranno parte di Guide to
Contemporary Sicilian Poetry: an Anthology, a cura della Stanford
University, in corso di pubblicazione.
Silvia Rosa
Silvia
Rosa nasce a Torino, dove vive e insegna. Laureata in Scienze dell'Educazione,
ha frequentato il corso di storytelling della Scuola Holden. Suoi testi poetici
e in prosa sono presenti in diversi volumi antologici, in riviste, siti e blog
letterari e sono stati tradotti in spagnolo, serbo, romeno e turco. Tra le sue
pubblicazioni: le raccolte poetiche Tutta
la terra che ci resta (Vydia Editore, 2022), Tempo di riserva (Giuliano Ladolfi Editore, 2018), Genealogia imperfetta (La Vita
Felice, 2014), SoloMinuscolaScrittura
(La Vita Felice, 2012), Di sole voci
(LietoColle Editore, 2010 - II ediz. 2012); il volume antologico Confine donna: poesie e storie di
emigrazione (Vita Activa Nuova, 2022), di cui è ideatrice e curatrice;
l'antologia foto-poetica Maternità marina
(Terra d'ulivi. 2020), di cui è curatrice e autrice delle foto; il saggio di
storia contemporanea Italiane
d'Argentina. Storia e memorie di un secolo d'emigrazione al femminile (1860-1960)
(Ananke Edizioni, 2013); il libro di racconti Del suo essere un corpo (Montedit Edizioni, 2010). È vicedirettrice
della rivista digitale "Poesia del nostro tempo", redattrice della
testata online "NiedernGasse", collabora con la rivista
"Margutte", con l'annuario di poesia “Argo” e con il quotidiano “Il
manifesto”. Si è occupata del progetto di traduzione poetica e interviste di
alcuni autori argentini, dal titolo “Italia Argentina ida y vuelta: incontri
poetici", pubblicato nel 2017 in e-book (edizioni Versante Ripido e La
Recherche).
La sua
attività completa, qui:
https://www.larecherche.it/biografia.asp?Utente=silviarosa&Tabella=Biografie
Carla Sautto Malfatto
Carla Sautto Malfatto è nata a Ferrara nel 1954.
Ha conseguito numerosi premi di podio e riconoscimenti per la poesia, la
narrativa, la pittura e la grafica, tra cui la Targa d’Argento della Presidenza
della Camera dei Deputati, la Medaglia del Senato, la Medaglia del Pontefice
Francesco I, il Premio Consiglio dei Ministri, il Premio Ministero per i Beni e
le Attività Culturali, il Premio Unesco, Premi alla Cultura, della Critica,
della Giuria; il Premio Terme di Salsomaggiore 2002 per la pittura. È membro di
Giuria in Concorsi Letterari e lo è stata in Concorsi Artistici. Collabora con
associazioni e riviste di cultura; i suoi testi sono pubblicati su Antologie e
siti culturali; cura recensioni, prefazioni, articoli d’attualità (curiosità,
folklore). In campo artistico è apprezzata per i suoi tipici
“simbolismo-surrealismo” e “reale personalizzato e comparato”, così definiti
dal critico Antonio Caggiano; diverse sue opere d’arte fanno parte di
collezioni pubbliche e private e sono riprodotte su copertina e all’interno di
riviste culturali e libri. Per molti anni ha compiuto volontariato fornendo
materiale e insegnamento artistico in scuole materne e primarie pubbliche e
private, in pediatria oncologica a Bologna, in corsi per disabili psichici. Ha
pubblicato Farfalle e Scorpioni,
racconti (Este Edition, 2015) e Troppe
nebbie, poesie (Edizioni Il Saggio, 2019), entrambi pluripremiati.
www.carlasautto.it
Antonella Sica
Antonella Sica, genovese, è laureata in Lettere
Moderne. È regista e manager culturale in ambito audiovisivo e cinematografico.
Ha fondato e co-diretto il Genova Film
Festival dal 1998 al 2015. Ha diretto e realizzato cortometraggi di fiction
e documentari selezionati e premiati in diversi Festival.
Tra i lavori
realizzati Ballata Trash, cortometraggio con il poeta Edoardo
Sanguineti.
Ha ideato e organizzato festival e rassegne cinematografiche, tra cui “X_Science:
Cinema tra Scienza e Fantascienza” e FIDRA (Festival Internazionale del
Reportage Ambientale). Nel 2014 vince il premio per la miglior silloge del
concorso indetto dalla casa editrice Prospero Editore (pubblicata dal medesimo
editore nel 2015 col titolo Fragile al
mondo). Nel 2017 vince il Premio Internazionale di Poesia Città di Milano
con la silloge La memoria nel corpo,
pubblicata l’anno seguente da Rayuela Edizioni. Nel 2019 vince il Premio come
Miglior Silloge al XX° Premio di Scrittura Femminile "Il Paese delle
donne" con la silloge L’ira notturna
di Penelope pubblicata nel 2022 da Prospero Editore con la prefazione
di Donatella Bisutti. Suoi testi sono stati pubblicati su diversi blog e
riviste fra cui Inverso-giornale di
poesia, Versante Ripido, Transiti Poetici, Poesia del nostro tempo, La
rosa in più, Le parole di Fedro.
Da gennaio 2022 cura la rubrica di videopoesia “Lanterna magica” su Versante Ripido.
Simona Volpe
Simona
Volpe, nata a Molfetta nel 1973, attualmente risiede a Martina Franca, trascorrendo
la sua vita tra la Puglia e la Toscana.
Dopo
il liceo classico, si iscrive alla Facoltà di Giurisprudenza a Pisa, città
densa di stimoli intellettuali, dove entra in contatto con gruppi universitari
di poesia e scrittura creativa per lei molto incoraggianti.
Nella
vita si occupa da circa 20 anni di management e comunicazione nel settore medico
e odontoiatrico.
Ha
sempre coltivato la poesia sotto forma di potentissima terapia dell’anima,
capace di slegare dai ritmi spigolosi del quotidiano per tornare alla sera, quando il vento s’arruffa e pesca a strascico pensieri e foglie, e si
riprende il proprio tempo.
Nel 2021 ha
pubblicato la raccolta poetica Occhi
salvia e zafferano con Bertoni Editore.
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3 maggio 2022
Gentilissimo Pino, grazie di cuore per avermi inserito nel tuo prezioso progetto di ricerca, e per averlo fatto con professionalità. Grazie per la tua perspicace nota introduttiva e esplicativa alla mia poetica, in cui mi sono perfettamente ritrovata. Ho letto le altre note riferite agli altri valenti poeti e sempre mi stupisce come tu riesca a trovare, per ognuno, "parole nuove", che ne evidenzino le caratteristiche e le peculiarità. Certo l'esperienza non ti manca, e hai usato proficuamente il tuo tempo per imparare e, con quelle basi, creare uno stile tutto tuo. Ben addossate al presente, e dolenti, sono le tue note introduttive al XXXIV volume, ma ricche, in chiusa, di una speranza, doverosa, volutamente incrollabile: non si può fare a meno di crederci, se vogliamo avere la forza, ogni giorno, di riaprire gli occhi e mettere un passo davanti all'altro. Anche imponendoselo, come atto dovuto. Io, la mia speranza, la coltivo in famiglia, nella fortuna (o fortunata scelta) di avere un marito che mi rispetta e mi ama, e di avere figli che ci sono vicini. Siamo vicini gli uni con gli altri, pur nella nostra imprescindibile imperfezione. Quindi, si può. Quindi, ci si riesce. Avanzando con l'età e con il bagaglio, sempre più incisivo, di una salute carente, la mia famiglia, da sempre fulcro e meta del mio operare, mi diventa rifugio, e coperta. Sono felice quando riesco ad essere utile a loro. Forse è un sentimento molto femminile, ma attraverso questo riesco a comprendere il tuo generoso impegno verso noi poeti che si concretizza in questi volumi curati da te. Spero che ti diano la soddisfazione che meriti.
RispondiEliminaCarla Sautto Malfatto